«Io e Sorrentino» Bigazzi, l’occhio del cinema
Sette David di Donatello e sei Nastri d’Argento solo per cominciare la conta, il bottino della carriera sta in una bacheca onusta di coppe e targhe. Luca Bigazzi è oggi il direttore più rilevante del cinema italiano, ha lavorato con Soldini, Placido, Mazzacurati, Martone, Amelio, Ciprì e Maresco, «pupilla» di fiducia, anzi alter ego di Paolo Sorrentino. Lo raggiungiamo telefonicamente a Venezia durante una pausa sul set della seconda stagione di The Young Pope, diretto sempre dal regista Oscar de La grande bellezza. Il motivo? Bigazzi, milanese (classe 1958) da quest’anno farà parte della giuria del Premio Roberto Gavioli per il documentario indetto dal Musil di Brescia. Qualche mese fa è stato in visita alla sede staccata di Rodengo Saiano e non ha trattenuto la sua emozione. «È stato un tuffo nella mia memoria familiare — ci racconta —. Quelle cineprese, quelle moviole… Mio padre Vieri era un regista di caroselli (Vidal, Pavesini, Dixan…), è un mondo che conosco. Il vostro museo, che conserva il fondo di Gavioli, custodisce un patrimonio di ingegno, lavoro e di design. È la storia di una parte dell’industria del nostro Paese. Industria che oggi viene considerata secondaria e che invece è stata all’avanguardia in Europa per innovazione».
Le avranno detto che il Musil vive una vita difficile…
«Non mi meraviglia. Il problema nazionale è pensare che la memoria e la cultura non siano indispensabili. L’Italia di questi anni ha un atteggiamento nichilista e masochista verso se stessa, non si ama più. Non la capisco e sono sinceramente preoccupato. I musei bisogna invece tenerseli stretti, perché rappresentano la nostra storia».
Veniamo al suo mestiere. Non è possibile pensare a Orson Welles senza Gregg Toland, a Woody Allen senza Gordon Willis…Che rapporto di interazione creativa si stabilisce tra direttore della fotografia e regista?
«Credo che il ruolo del direttore della fotografia sia stato molto sopravvalutato. Noi siamo solo uno dei tanti bracci del regista, nel senso che insieme a noi lavorano scenografi, costumisti, macchinisti, elettricisti… Tutti collaborano e mettono in pratica l’idea del regista. Non esiste un bravo direttore di fotografia senza un bravo regista. Molto speso mi vengono attribuiti meriti che io non ho. Il cinema è un’opera artistica collettiva, che poi va contemplata collettivamente in una sala cinematografica. Non si può pensare di capire il cinema se lo si vede da solo davanti a un computer o a un televisore. La tv e il web sono mezzi destinati a controllare e isolare le persone, la sala è invece è un luogo aperto pieno di vita e di empatia».
Come ha vissuto il passaggio dall’analogico al digitale?
«Nonostante le parole romantiche che ho appena detto, uso felicemente il digitale. È più economico, più agile, più veloce. Oggi posso girare al buio, mentre prima bisognava usare un parco di lampadine. Nessuna nostalgia delle candele di Kubrick, delle luci al neon».
Si dice che lei sia un autodidatta fiero di essere tale.
«Non ho fatto scuole di cinema, sono arrivato fortunosamente a fare questo lavoro, perché ero compagno di liceo di Silvio Soldini. Abbiamo incominciato insieme, con il film Paesaggio con figure (1983). Prima facevo soprattutto politica, nella sinistra extraparlamentare di sinistra e lo rivendico. Mi occupavo inizialmente di fotografie e camere oscure. Un consiglio ai giovani? Avere passione e abituarsi all’idea della fatica, perché il prezzo da pagare in sudore e ostinazione è alto».
Capolavoro corale
Molto spesso mi vengono attribuiti meriti che non ho. Il cinema è un’opera artistica collettiva, che poi va contemplata collettivamente in una sala cinematografica. Non si può capirlo se lo si vede da soli al pc o in tv