Giovanni Gastel Il fotografo dell’eleganza
Gastel si racconta il suo album personale: «Io, la fotografia, lo stile e lo zio Luchino Visconti»
Pochette nel taschino, camicia di seta e barba spettinata con finta negligenza, Giovanni Gastel parla delle mutandine di Marpessa davanti a un bicchiere di acqua e zenzero dai poteri taumaturgici: «Me le ha lanciate dalle scale, mentre usciva dal camerino. Le ho incorniciate». Tra penitenti in accappatoio e ciabatte che ordinano tisane detossinanti e signore con gli impacchi di carta stagnola in testa, l’ultimo superstite del dandismo è l’unico cui siano concessi i mocassini di pelle nel salottino di Villa Paradiso, la clinica del benessere di Gardone Riviera (luogo di culto per i feticisti dell’elisir di lunga vita): ha finito i trattamenti ieri, e giurano sia un paziente impeccabile.
Per stilisti, direttori delle Bibbie del pret-àporte, divi e cronisti di moda, Gastel è il fotografo dell’eleganza: «Considero l’eleganza una categoria etica — dice —. Non è qualcosa di materiale come il fazzoletto che porto nel taschino, ma un atteggiamento rispetto alla vita. I latini la chiamavano dignitas, ed erano disposti a morire per preservarla». La sua classe è ereditaria: sua madre Ida era la sorella di Luchino Visconti. Altissima aristocrazia. «Mio padre, invece, era un piccolo borghese. Sono cresciuto in mezzo a due tipi di educazione contrastanti. Alla mamma, per esempio, non fregava niente della laurea. Quando le dissi che finito il liceo avrei fatto il fotografo, mi rispose: per me va benissimo, ma parla con tuo padre». Lo fece nel suo grande ufficio: «E lui reagì così: non ti darò più una lira, te la cavi da solo. Uscii e dopo cinque minuti mi fece chiamare dalla sua segretaria: “Suo padre le ha una cosa da darle”». Un pettine e uno specchio: «Pensava che sarei finito a fare le fototessere: con quel regalo, i clienti sarebbero stati in ordine per lo scatto. Alla fine, però, divenne il mio più grande fan. Lo capii quando avevo 23 anni. Era appena stato alla mia prima vernice: nel silenzio della notte, mentre lo stavo accompagnando a casa, mi disse: bravo». Lo zio Luchino, invece, «mi ha lasciato il metodo: concentrazione assoluta. Dimenticatevi i soldi e il successo, ripeteva sempre: se c’è da vendere una casa per creare il prodotto, vendetela. E studiate, studiate tanto». Ha fotografato Obama a Milano: «Eravamo a un cocktail con altre 20 persone, prima che iniziasse la sua conferenza sul clima. Gradevolissimo, ha salutato anche i camerieri». Gianni Versace: «Ogni volte che gli chiedevi cosa volesse da te, diceva: stupiscimi, divertiti. Era il trionfo della creatività». Quando gli commissionarono il ritratto di Michael Stipe, il cantante dei Rem, quelli di Vanity Fair lo avvertirono: è uno stronzo. «Appena entrò nella stanza, mi disse: sbrighiamoci, ho 5 minuti. Poi vide i primi scatti e cambiò idea: rimase in studio fino alle nove di sera, dovetti quasi cacciarlo».
Il ritratto, per Gastel, «è un atto di seduzione. Anche quando fotografi le cose». La moda «è teatro. E il vestito è l’unico protagonista dello scatto: le modelle sono solo attrici. Ma molto più intelligenti di quello che si creda: diventano quello che vuoi che diventino. Linda Evangelista era così già a 18 anni». Lo stile è anche nell’errore: «Le mie foto sono spesso sfocate, sempre frontali, sovraesposte. È la loro bellezza». Ai colleghi che maledicono il digitale, dice: «L’errore è pretendere di ritrovarci l’estetica del mezzo vecchio, invece è un linguaggio a sé». La dittatura delle immagini non l’ha reso schiavo: «In primavera, lancerò Photografip, una rivista cartacea e telematica che racconterà la fotografia. Più con le parole che con gli scatti».