Corriere della Sera (Brescia)

I 70 di Bertoglio, il campione umile

Scoprì il ciclismo per caso, vinse il Giro del 1975 in un leggendari­o arrivo allo Stelvio Ora si gode la famiglia a Concesio: «Nessuno credeva in me, per questo fui amato»

- Di Luca Bertelli

Lo Stelvio è il passo di tutti gli appassiona­ti di ciclismo. Ma nessuno, come Fausto Bertoglio, lo ha fatto suo. «Il Giro d’Italia si concluse lì solo una volta, nel 1975. E vinsi io», spiega lui, con la semplicità tipica del personaggi­o. Ci fu molto altro in quella corsa a fil di ruota con lo spagnolo Francisco Galdos. Non solo quello che si vide, in differita, sugli schermi di Rai Uno. Nessun’altra gara ciclistica toccò mai quella cima. Di spettatori. Furono 7 milioni. Il «dietro le quinte» lo svela Bertoglio stesso, ora che può permetters­i di mettere in un cassetto la modestia. All’iberico lasciò il successo di tappa, corse in difesa per mantenere i 41 secondi di vantaggio, ma aveva la gamba per staccarlo e trasformar­e in mito una tappa leggenda: «Galdos, a due chilometri dall’arrivo, non ne aveva più: mi chiese di lasciargli la tappa e acconsenti­i. Non ero mica Merckx: lui si sarebbe preso tutto, io mi sono tenuto la maglia rosa». Oggi il primo (lo emulò Roberto Visentini nel 1986) bresciano vincitore della corsa rosa compie 70 anni. Li festeggerà in famiglia, con un pranzo a base di pesce — lo cattura lui sulle sponde del lago d’Idro — da fedele custode di una riservatez­za lontana dai lustrini. Fu un gregario diventato capitano, quando «saltò» Battaglin e la Jolly Ceramica si trovò in casa il sostituto. Un campione umile che scoprì il ciclismo per caso, a tredici anni: «Ero portiere nella squadra dell’oratorio — racconta — poi vidi una gara Allievi, scalarono la Forcella inzuppati di fango. Mi innamorai lì del ciclismo». Con la bicicletta della sorella (è l’ultimo di otto fratelli) era difficile capire di avere stoffa: quando suo padre gli regalò una Legnano, con i cambi, iniziò a fare sul serio. Nel 1973, a 24 anni, divenne profession­ista. Due stagioni dopo, vinse il Giro. Eppure si ritirò già nel 1980: «Mi chiamò Moser, gli feci da gregario. Poi non mi volle più nessuno e aprii subito il mio negozio di bici. Lo gestisco con mio figlio Paolo. Correva forte anche lui, ma ora se non ti aiuti non vinci. Così ha smesso».

Un allusione sottile al doping: «Sono fiero del mio ciclismo puro: in quel Giro eravamo tutti alla pari». Snocciola aneddoti sulle tre settimane che gli hanno cambiato la vita ma non il conto in banca: prese la maglia rosa imponendos­i nella cronoscala­ta del Ciocco, «prima corsa vinta da profession­ista». Al momento giusto. I pronostici a sfavore, «dicevano che non avrei retto, per questo l’Italia mi adottò»; la notte della vittoria ad Abano Terme, l’indomani il passaggio in una Concesio in festa e poi via a Cossato per vincere la sera stessa un Criterium. Il ciclismo lo ha dimenticat­o, lui in bici va ancora («Due mila chilometri all’anno») e c’è chi non lo riconosce perché Bertoglio è invecchiat­o bene. Non chiede regali, sta ancora imparando a usare il telefonino ricevuto a Natale, però un desiderio l’avrebbe: «Trasferirm­i al lago, nella mia casa ad Anfo. Ma mia moglie Giuseppina non vuole. Mi accontente­rò di andare in pensione...». Auguri.

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 ??  ?? Oggi e ieri Fausto Bertoglio, sopra a sinistra, posa davanti al suo negozio di biciclette a Concesio; a destra, la festa sullo Stelvio con i suoi tifosi nel Giro del 75
Oggi e ieri Fausto Bertoglio, sopra a sinistra, posa davanti al suo negozio di biciclette a Concesio; a destra, la festa sullo Stelvio con i suoi tifosi nel Giro del 75

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