Processo alla ‘ndrangheta di Cantù I boss (in video) terrorizzano l’aula
A giudizio i rampolli delle famiglie calabresi. Il Comune non si è costituito parte civile
Nella grande aula al piano COMO terra del Tribunale di Como stavolta si bisbiglia soltanto. In prima fila, tra il pubblico, ci sono una quindicina di madri, mogli e fidanzate. Nessuno alza la voce, urla, si scaglia contro gli inquirenti. Neppure mentre il pm della Dda di Milano Sara Ombra incalza un testimone cosi reticente da spingere il magistrato a chiedere ai giudici di acquisire il verbale rilasciato tre anni prima, tanto evidente è il castello di reticenze e bugie.
Una settimana fa, quando durante un’udienza del processo ai rampolli della ‘ndrangheta comasca dal pubblico si levarono urla contro i magistrati, la presidente del collegio Valeria Costi chiese di sgomberare l’aula e ordinò ai carabinieri di identificare i presenti. Con non poche difficoltà, visto che alcuni si rifiutarono perfino di fornire nome e cognome. Oggi si entra solo dopo aver mostrato i documenti ai militari, presenti in maniera massiccia fuori e dentro l’aula. E le parole pronunciate dal pm Sara Ombra, a lungo magistrato in Calabria («Nemmeno a Locri ho visto scene di questo genere») dicono tutto su quel che sta andando in scena in riva al lago. Dove testimoni reticenti o assenti, improvvisi vuoti di memoria ed evidenti crisi di paura trasformano un lungo elenco di don Abbondio in complici di don Rodrigo e dei suoi
bravi. E qui hanno nomi precisi, che rimandano alla storia più sanguinaria della ‘ndrangheta calabrese. A cominciare da Giuseppe Morabito, 32 anni, boss della movida di Cantù che porta il nome del nonno
Peppe ‘u tiradrittu, padrone di Africo e di mezza Calabria. In un processo che è la rappresentazione della «‘ndrangheta 3.0», con ragazzi rispettati e protetti a mille chilometri dalla Calabria. E pensare che il Tribunale ha deciso che i boss possano seguire il processo solo in videocollegamento da Opera. Anche per evitare il rischio che i testimoni sia impauriscano guardandoli negli occhi. Ma, evidentemente, non è bastato.
Non è un caso che lunedì, parlando davanti agli imprenditori di Assolombarda, il capo della Dda Alessandra Dolci abbia citato proprio questo processo come esempio di cosa significhi oggi il potere delle cosche e di quanto isolamento abbiano, ancora, le vittime dei clan: «Davanti al Tribunale s’è costituita una sola parte civile, al fianco dei testimoni intimiditi non c’è neppure il Comune di Cantù. Non è un bel segnale». Perché la ‘ndrangheta si combatte anche attraverso la presenza delle istituzioni. E certe assenze pesano come macigni.
Lo si capisce quando parla il primo testimone. La moglie e il figlio gestivano il bar Grill house di Cantù. «Perché lo avete chiuso?», chiede il pm: «Era in perdita». Il magistrato rilegge la testimonianza messa a verbale nel 2016: «Un barista mi disse che mi avrebbero fatto saltare il locale». Poi riporta il contenuto di una conversazione con il carabiniere che ha avvisato il testimone della sua convocazione: «Adesso vado lì e mi faccio ammazzare dai calabresi? Poi uno si mette in guerra e si trova persone dietro la porta...».
Il teste in aula nega, ridimensiona, cerca goffamente di minimizzare. Tanto che la presidente lo richiama più volte. Alla fine ammette che i calabresi di Morabito entravano e pretendevano di non pagare: «Hanno gettato a terra i panini e li hanno calpestati». Per la Procura avrebbe chiuso il locale proprio perché vittima di questa continua estorsione. «No, colpa dei giornali. Che mi hanno fatto una paginata quando si sono sparati fuori dal bar». A sparare, il 4 agosto 2016, contro il rivale Andrea Giacalone era stato Antonio Manno. Fucile a canne mozze, storia di donne ma anche di ascesa criminale dei Morabito boys.
Colpa dei cronisti, dice un avvocato alla presidente della corte, è anche quella di aver «gonfiato» l’episodio della scorsa udienza. Le urla da stadio e gli applausi arrivati dai parenti degli imputati. Perché da queste parti la ‘ndrangheta resta qualcosa di cui non si deve parlare, né tantomeno scriverne. Soprattutto per chi lavora nelle testate locali e che i mafiosi se li ritrova accanto quando va a bere il caffè.
L’esempio arriva da un giovane socio della discoteca «Spazio» di Cantù, dove lavorava come capo della security il rampollo della famiglia Muscatello, Ludovico. Lo stesso che sarà ferito in un agguato dagli uomini di Morabito che, fregandosene degli equilibri decennali del locale di Mariano Comense (guidato dal nonno Salvatore Muscatello), volevano prendersi il potere.
Il testimone racconta che i Morabito’s bevevano senza pagare. Il pm chiede per quale motivo. Lui non chiarisce: «Il suo socio le aveva detto che era meglio non metterseli contro, vero? Perché?». «Provenivano da famiglie, diciamo malavitose...». «Ma esattamente, malavitose in che senso?». Il ragazzo ci gira intorno per diversi minuti, non pronuncia mai la parola mafia. Chiede ancora il pm Ombra: «Sapeva che il nonno di Giuseppe Morabito era uno dei più importanti boss della ‘ndrangheta?». «Certo».
«Eh però sono minuti che glielo chiedo e lei mica ce l’ha detto... era così difficile?».