MANIFESTI CHE CREANO EMPATIA
Secondo Arthur Aron, psicologo della New York State University, guardarsi per quattro minuti negli occhi può avvicinare empaticamente due persone più di ogni altra cosa. L’esperimento dei manifesti funebri comparsi in molti paesi del Bresciano per ricordare la tragedia dei profughi non può certo ottenere l’effetto di una relazione faccia–a–faccia. Quello che cerca di fare è più modesto, ma non meno prezioso: strapparci all’assuefatta indifferenza del telespettatore dei tg serali. Un’indifferenza che sostanzialmente non muta anche se affrontiamo la questione come un drammatico fenomeno antropologico, demografico e sociale. Viene in mente la distinzione tra umanità astratta e umanità concreta avanzata da Rousseau. Per percepire i migranti quali uomini come noi, verso cui nutrire dunque sentimenti empatici, abbiamo bisogno che essi diventino umanità concreta e per questo serve qualcosa che buchi lo schermo e colpisca la nostra immaginazione. Ci era riuscita nel 2016 la foto di Aylan, il bambino siriano di tre anni morto sulla spiaggia turca: quella pietosa deposizione evocava per contrasto le nostre estati con i bambini che giocano sul bagnasciuga. Se per qualsiasi ragione ci manca il contatto diretto, è l’immedesimazione che può agire. Oggi sappiamo che le acquisizioni cognitive producono un effetto profondo, inducendoci a comportamenti attivi, solo quando le corde dell’emozione sono vivamente sollecitate. Per agire non basta conoscere le cose.
Bisogna «sentirle», esserne intimamente colpiti. I manifesti funebri hanno provato a dirci che quei morti erano qualcuno di noi, dove noi non indica italiani o migranti, bianchi o neri, di destra o di sinistra, ma semplicemente uomini. La litaniante lista di «nessuno» che occhieggia dai manifesti a lutto, pur nella totale diversità dei contesti, ha un valore analogo ai «presente» del cimitero di guerra di Redipuglia. Ci dicono che quelle morti non possiamo ignorarle, né dimenticarle. E non possiamo farlo pena la rinuncia alla nostra di umanità. Qualcuno ha paventato un uso strumentale dell’iniziativa, qualcun altro ha sostenuto che si vorrebbero impietosire gli italiani. Credo che gli ignoti promotori di questa operazione volessero soltanto richiamarci alla nostra «responsabilità», parola oggi assai meno di moda di un’altra, «diritto», ma forse ancora più decisiva e preziosa. Perché la disumanizzazione – la nostra – scatta quando le persone sono riconvertite in dati quantitativi, in numeri: che è l’anticamera della sacrificabilità.