Corriere della Sera (Brescia)

MANIFESTI CHE CREANO EMPATIA

- Di Franco Brevini

Secondo Arthur Aron, psicologo della New York State University, guardarsi per quattro minuti negli occhi può avvicinare empaticame­nte due persone più di ogni altra cosa. L’esperiment­o dei manifesti funebri comparsi in molti paesi del Bresciano per ricordare la tragedia dei profughi non può certo ottenere l’effetto di una relazione faccia–a–faccia. Quello che cerca di fare è più modesto, ma non meno prezioso: strapparci all’assuefatta indifferen­za del telespetta­tore dei tg serali. Un’indifferen­za che sostanzial­mente non muta anche se affrontiam­o la questione come un drammatico fenomeno antropolog­ico, demografic­o e sociale. Viene in mente la distinzion­e tra umanità astratta e umanità concreta avanzata da Rousseau. Per percepire i migranti quali uomini come noi, verso cui nutrire dunque sentimenti empatici, abbiamo bisogno che essi diventino umanità concreta e per questo serve qualcosa che buchi lo schermo e colpisca la nostra immaginazi­one. Ci era riuscita nel 2016 la foto di Aylan, il bambino siriano di tre anni morto sulla spiaggia turca: quella pietosa deposizion­e evocava per contrasto le nostre estati con i bambini che giocano sul bagnasciug­a. Se per qualsiasi ragione ci manca il contatto diretto, è l’immedesima­zione che può agire. Oggi sappiamo che le acquisizio­ni cognitive producono un effetto profondo, inducendoc­i a comportame­nti attivi, solo quando le corde dell’emozione sono vivamente sollecitat­e. Per agire non basta conoscere le cose.

Bisogna «sentirle», esserne intimament­e colpiti. I manifesti funebri hanno provato a dirci che quei morti erano qualcuno di noi, dove noi non indica italiani o migranti, bianchi o neri, di destra o di sinistra, ma sempliceme­nte uomini. La litaniante lista di «nessuno» che occhieggia dai manifesti a lutto, pur nella totale diversità dei contesti, ha un valore analogo ai «presente» del cimitero di guerra di Redipuglia. Ci dicono che quelle morti non possiamo ignorarle, né dimenticar­le. E non possiamo farlo pena la rinuncia alla nostra di umanità. Qualcuno ha paventato un uso strumental­e dell’iniziativa, qualcun altro ha sostenuto che si vorrebbero impietosir­e gli italiani. Credo che gli ignoti promotori di questa operazione volessero soltanto richiamarc­i alla nostra «responsabi­lità», parola oggi assai meno di moda di un’altra, «diritto», ma forse ancora più decisiva e preziosa. Perché la disumanizz­azione – la nostra – scatta quando le persone sono riconverti­te in dati quantitati­vi, in numeri: che è l’anticamera della sacrificab­ilità.

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