Una parola giusta e lirica contro l’istinto all’oblio
Avolte a teatro succedono miracoli: gli spettatori diventano popolo — un anacronismo di questi tempi —. Popolo vero senza reflussi retorici mazziniani: si è animati da una volontà comune nel presente, ci si riconosce figli dello stesso passato, si ha lo sguardo convergente. Il miracolo accade durante La parola giusta al Sociale. Testo di rara intensità quello scritto da Marco Archetti, asciutto e dotato di una forza evocativa che muove montagne di emozioni. La parola giusta è quella che condensa il senso di una esperienza. Quella che è la più semplice e la più difficile, quella che non può essere supplita da un sinonimo, quella che assomiglia ad un ciotolo levigato, senza baffi di fango o muschio. Che è la più sobria, netta e poetica. Questa la sfida (vinta) dello spettacolo: trovare le parole giuste per parlare di una pagina buia e sporca di sangue della nostra storia, con l’iter giudiziario travagliato, gli squallidi revisionismi, i pregiudizi che si travestono da fake news in un Paese culturalmente anoressico e con l’istinto all’oblio. Come fare? Il teatro-documento è bollito, si sa, qualche anno fa Marco Baliani (Il sogno di una cosa) era ricorso mirabilmente al mito (Brescia appestata come Tebe), Archetti, da scrittore, opta per il racconto col respiro romanzesco ed empatico. Guscio storico fedele con gli amuleti dell’immaginario collettivo d’epoca che cristallizzano la febbre di quegli anni formidabili con le lotte e conquiste; polpa fiction ma verosimile: il filo conduttore è quello di due ragazzi divisi dalla bomba di piazza Fontana e ritrovatisi in occasione dei funerali di piazza della Loggia. Attorno sfilano Beatles, Led Zeppelin, Easy Rider, l’impresa lunare di Armstrong, ma anche Freda, Ventura e Maletti e altri. La vita spariglierà i destini dei due giovani, ma non spegnerà in loro la forza dell’utopia. La mano registica di Gabriele Vacis si sente: il 28 maggio con quegli ombrelli rimane nella cornea. La scena rimane vuota ma si fa per dire. A riempirla ci pensa un’immensa Lella Costa, carne e anima, merlettaia di parole e signora di scena, commovente e straniante, che ci consegna un comandamento civile sotto forma di aforisma per la clessidra dei nostri pensieri: «Noi non siamo testimoni perché c’eravamo: siamo testimoni perché non abbiamo mai smesso di esserci». Anche la scenofonia di Roberto Tarasco merita un plauso.