Filo spinato, lenzuola e memorie L’urlo di denuncia di Gqunta
Filo spinato, lembi di tessuto strappato e lenzuola stese. Le installazioni di Lungiswa Gqunta sono stratificazioni concettuali che attingono alla sua storia personale, ma anche a quella del suo Paese: un amalgama di racconti intimi e universali, rituali sacri, echi femministi, oggetti apparentemente banali e memorie. Con i suoi murales abbozzati sulle pareti di Apalazzo gallery (in città, piazza Tebaldo Brusato) l’artista africana — nata nel 1990 a Port Elizabeth — dice di voler «puramente sottolineare, enfatizzare, ciò che è chiaro per me e potrebbe non essere molto chiaro per qualcun altro».
La sua ricerca scaturisce dalla cultura e dalla politica post-coloniale sudafricana: attraverso un linguaggio multiforme che attinge a diversi medium e l’uso ricorrente di oggetti domestici (che possono trasformarsi anche in arsenali), Gqunta dissotterra e fa affiorare gli squilibri sociali del dominio patriarcale, la violenza e la disuguaglianza vissute nel suo Paese, con una particolare attenzione alla condizione femminile.
Con le sue opere definite da alcuni critici multisensoriali — un video, frame stampati in bianco e nero e un’installazione-murales con il filo spinato e i frammenti di tessuto — Gqunta sublima ineguaglianze e rivolte sociali in gesti femminili. Le sue lenzuola piegate raccontano la rivolta nera, la sopravvivenz a, la vita nei sobborghi, le contraddizioni di un Paese e la propria esperienza personale.
Una narrazione intima che trae ispirazione dall’ambiente domestico e si fa racconto universale, denuncia politica e razziale. (a.tr.)