AMBIENTE E VECCHIE SCIOVIE
Da qualche tempo si è tornato a parlare degli impianti sciistici dismessi. Sono piccole infrastrutture erette alcuni decenni fa in bassa quota, che il riscaldamento globale ha reso ormai inutilizzabili. Di questi ferrivecchi le associazioni ambientaliste hanno stilato un elenco che include duecento siti, alcuni dei quali si trovano anche in provincia di Brescia, al Guglielmo e alla Maddalena. Non possiamo che essere grati a chi ha pazientemente censito queste installazioni, che indubbiamente deturpano le nostre montagne. La speranza è che prima o poi si trovino i soldi per smantellarle e per riportare la montagna al suo decoro. Con questa premessa non possiamo però fare a meno di rilevare una grave mancanza di prospettiva storica nell’approccio al problema. Presentare queste rovine come l’emblema di una visione strumentale dell’ambiente unicamente tesa al profitto, su cui la natura ha fatto giustizia e i cui effetti ricadranno sui contribuenti, appare ingiusto, oltre che semplicistico. Chi voglia approfondire un po’ la questione non tarderà molto a scoprire che la maggior parte dei piloni che ora arrugginiscono al sole risalgono agli anni SessantaSettanta. È il periodo in cui l’Italia del dopoguerra si affacciava allo sci, sull’onda del nuovo benessere del boom economico. La neve, che aveva funestato da sempre la vita delle popolazioni alpine, fu allora salutata come l’«oro bianco», che veniva a portare un’ondata di ricchezza nelle vallate.
Allora nessuno voleva rinunciare alla sua parte e così si assisté a una vera e propria proliferazione di sciovie. Ogni località di montagna voleva la sua, nella speranza di accedere al regno felice delle stazioni invernali. Ecco perché la maggior parte degli impianti stava in basso: perché si trovava a fianco dei paesi. Quanto molti di quei sogni fossero illusori lo dimostra lo stato di rovina in cui versano oggi gli skilift o le seggiovie. Negli anni la selezione darwiniana ha agito anche sulle stazioni sciistiche e attualmente, in seguito al riscaldamento globale, sciare sotto i 1.200 metri è impensabile.
Questi impianti certo non sono una bella eredità, ma che senso ha accanirsi contro di essi, accantonando danni ben più drammatici causati da insediamenti industriali, che sono stati ugualmente effettuati in epoche in cui la sensibilità ambientale era diversa? Pensiamo proporzionalmente a quanto più grandi e invasivi siano i ferri delle industrie chimiche che deturpano le coste della Sardegna, da Porto Torres a Sarroch. Tutti ci augureremmo una montagna invernale in cui risuoni solo il fruscio delle pelli di foca dello scialpinista, ma dai luoghi in cui ciò accade la gente fugge a gambe levate. La provincia di Belluno perde mille residenti all’anno ed è per arginare questa emorragia demografica che si parla di collegare i comprensori locali con Cortina e con il circuito di Dolomiti Superski. Dai dati Istat risulta che, con una crescita del 3,4%, gli sport invernali contendono all’atletica il podio della crescita del numero di italiani che pratichino uno sport. L’incremento degli sport della montagna in Italia è trascinato dagli sport invernali, dove lo sci alpino detiene quasi i due terzi delle quote. Che la gente continui a vivere in montagna è importante per mille ragioni, che vanno dalla manutenzione del territorio alla prosecuzione delle attività tradizionali, che stanno trovando un punto di incontro con il turismo grazie alla logica del chilometro zero. Peraltro oggi anche gli impiantisti hanno capito che deturpare il paesaggio significa fare un autogol, ipotecando gravemente il futuro dei figli e dei nipoti. Criminalizzare lo sci non sembra proficuo. Meglio trovare un dialogo con chi gestisce le stazioni, il cui recente tutto esaurito durante le vacanze di fine anno dovrà pure far riflettere. La gente vuole lo sci. Si tratta solo di promuovere fra sportivi e gestori una più acuta consapevolezza ambientale, che impedisca di ripetere gli errori del passato.