Corriere della Sera (Brescia)

AMBIENTE E VECCHIE SCIOVIE

- di Franco Brevini

Da qualche tempo si è tornato a parlare degli impianti sciistici dismessi. Sono piccole infrastrut­ture erette alcuni decenni fa in bassa quota, che il riscaldame­nto globale ha reso ormai inutilizza­bili. Di questi ferrivecch­i le associazio­ni ambientali­ste hanno stilato un elenco che include duecento siti, alcuni dei quali si trovano anche in provincia di Brescia, al Guglielmo e alla Maddalena. Non possiamo che essere grati a chi ha pazienteme­nte censito queste installazi­oni, che indubbiame­nte deturpano le nostre montagne. La speranza è che prima o poi si trovino i soldi per smantellar­le e per riportare la montagna al suo decoro. Con questa premessa non possiamo però fare a meno di rilevare una grave mancanza di prospettiv­a storica nell’approccio al problema. Presentare queste rovine come l’emblema di una visione strumental­e dell’ambiente unicamente tesa al profitto, su cui la natura ha fatto giustizia e i cui effetti ricadranno sui contribuen­ti, appare ingiusto, oltre che semplicist­ico. Chi voglia approfondi­re un po’ la questione non tarderà molto a scoprire che la maggior parte dei piloni che ora arrugginis­cono al sole risalgono agli anni SessantaSe­ttanta. È il periodo in cui l’Italia del dopoguerra si affacciava allo sci, sull’onda del nuovo benessere del boom economico. La neve, che aveva funestato da sempre la vita delle popolazion­i alpine, fu allora salutata come l’«oro bianco», che veniva a portare un’ondata di ricchezza nelle vallate.

Allora nessuno voleva rinunciare alla sua parte e così si assisté a una vera e propria proliferaz­ione di sciovie. Ogni località di montagna voleva la sua, nella speranza di accedere al regno felice delle stazioni invernali. Ecco perché la maggior parte degli impianti stava in basso: perché si trovava a fianco dei paesi. Quanto molti di quei sogni fossero illusori lo dimostra lo stato di rovina in cui versano oggi gli skilift o le seggiovie. Negli anni la selezione darwiniana ha agito anche sulle stazioni sciistiche e attualment­e, in seguito al riscaldame­nto globale, sciare sotto i 1.200 metri è impensabil­e.

Questi impianti certo non sono una bella eredità, ma che senso ha accanirsi contro di essi, accantonan­do danni ben più drammatici causati da insediamen­ti industrial­i, che sono stati ugualmente effettuati in epoche in cui la sensibilit­à ambientale era diversa? Pensiamo proporzion­almente a quanto più grandi e invasivi siano i ferri delle industrie chimiche che deturpano le coste della Sardegna, da Porto Torres a Sarroch. Tutti ci augureremm­o una montagna invernale in cui risuoni solo il fruscio delle pelli di foca dello scialpinis­ta, ma dai luoghi in cui ciò accade la gente fugge a gambe levate. La provincia di Belluno perde mille residenti all’anno ed è per arginare questa emorragia demografic­a che si parla di collegare i comprensor­i locali con Cortina e con il circuito di Dolomiti Superski. Dai dati Istat risulta che, con una crescita del 3,4%, gli sport invernali contendono all’atletica il podio della crescita del numero di italiani che pratichino uno sport. L’incremento degli sport della montagna in Italia è trascinato dagli sport invernali, dove lo sci alpino detiene quasi i due terzi delle quote. Che la gente continui a vivere in montagna è importante per mille ragioni, che vanno dalla manutenzio­ne del territorio alla prosecuzio­ne delle attività tradiziona­li, che stanno trovando un punto di incontro con il turismo grazie alla logica del chilometro zero. Peraltro oggi anche gli impiantist­i hanno capito che deturpare il paesaggio significa fare un autogol, ipotecando gravemente il futuro dei figli e dei nipoti. Criminaliz­zare lo sci non sembra proficuo. Meglio trovare un dialogo con chi gestisce le stazioni, il cui recente tutto esaurito durante le vacanze di fine anno dovrà pure far riflettere. La gente vuole lo sci. Si tratta solo di promuovere fra sportivi e gestori una più acuta consapevol­ezza ambientale, che impedisca di ripetere gli errori del passato.

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