La «ricetta» degli Alleati contro il tifo
Otto casi nel maggio del 1945, e la Croce Rossa requisì l’ospedale di Gavardo
Prove tecniche di epidemia. Nel corso della sua storia, più di una volta, Brescia si è trovata a fare i conti con veri e propri flagelli, morbi contagiosi, febbri maligne. Peste, vaiolo, colera, «spagnola», tifo. Settantacinque anni prima del coronavirus, all’arrivo degli Alleati dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la città e la provincia si preparavano ad una possibile epidemia di tifo. Fu individuato e isolato un intero ospedale — quello di Gavardo — come possibile struttura sanitaria per «malati infetti». In realtà i casi furono limitati e il morbo fortunatamente non conobbe la diffusione paventata.
Ma la macchina preventiva della sanità si mise in moto compatibilmente con le ristrettezze e le difficoltà di quelle settimane tra maggio e giugno 1945. Ciò che faceva più paura in quel momento era il rientro di soldati e profughi dai fronti di guerra.
La guerra era finita sul piano militare, ma restavano da rimpatriare centinaia di migliaia di soldati tedeschi prigionieri, mentre un fiume di italiani stava tentando di rientrare nei luoghi d’origine dai fronti stranieri o dai luoghi di detenzione o di lavoro forzato. Un’ enorme massa di persone affamate, deboli, ammalate era in movimento. Per questo era necessario mantenere alta l’attenzione. Gli anglo-americani temevano soprattutto il tifo e si erano convinti che Brescia, da
questo punto di vista, fosse una terra a rischio a causa di diversi casi registrati in precedenza.
Il loro principale obiettivo era la tutela delle truppe alleate ancora acquartierate nel nord Italia oltre che della popolazione civile italiana. Lo scoppio di un’epidemia in quel momento avrebbe avuto conseguenze temibili, forse disastrose.
Nel suo primo rapporto (riferito al periodo 1-15 maggio) indirizzato al colonnello H. S. Robinson, governatore alleato della città, Mary B. Lowry dell’American Red Cross, riferì le principali informazioni acquisite sul campo allo scopo di delineare al suo superiore la situazione bresciana sotto il profilo igienico sanitario.
Per Miss Lowry, che faceva parte del team alleato ed era responsabile per la sanità, il problema principale di Brescia era rappresentato dal movimento dei rifugiati provenienti dai battaglioni di lavoratori forzati («enforced labor battalions») in Germania. Nei primi giorni dopo la libera
zione il numero dei rifugiati si aggirava sui sei-settecento al giorno. Nel periodo tra il 7 e il 12 maggio giungevano a Brescia dalle 4000 alle 6000 persone.
A partire dal 13 maggio il numero dei rifugiati si attestava sul migliaio al giorno. Vennero istituiti dodici centri di assistenza. A Brescia solo 300 dei 1400 posti letto in ospedale erano stati risparmiati dalle bombe. Miss Lowry e i suoi collaboratori individuarono allora nell’ospedale di Gavardo (250 posti letto) una possibile struttura sanitaria decentrata dove ospitare eventuali malati infettivi.
L’ospedale gavardese (era stato in precedenza requisito dai fascisti e trasformato in centro sanitario della marina e gestito dalla X Mas) con tutte le sue attrezzature, ambulanze e furgoni venne posto sotto la tutela del Prefetto. Restava la preoccupazione per la mancanza di medicine e vaccini soprattutto dopo che erano stati registrati otto nuovi casi di tifo nelle prime settimane di maggio 1945.
Questa decisione innescò un’aspra polemica. La scelta fu contestata dal Comitato di liberazione locale e dall’Opera pia proprietaria dell’ospedale stesso che inoltrò, per voce del presidente Sebastiano Giordana, le sue rimostranze al prefetto e al comando militare anglo-americano: «Il provvedimento — scriveva Giordana — viene a ledere in maniera gravissima questa Opera pia che aveva infatti appena ultimato i lavori di adattamento del reparto chirurgico». L’Opera pia «Ricovero
"La fonte di pericolo In città arrivavano ogni giorno dal fronte e dai campi di detenzione da 4000 a 6000 persone
Ospedale La memoria» chiese che non venissero trascurate «le necessità sanitarie di Gavardo e degli altri comuni della zona e che fosse evitata la soppressione di questo nosocomio che rappresenta una necessità impellente per la popolazione». La richiesta venne contestata dal successivo rapporto della responsabile americana dell’assistenza che giudicò ridicola la protesta dei gavardesi per il fatto che in quell’ospedale non vi erano stati mai più di 17 pazienti insieme («more than ridicolous»). Tuttavia nei mesi successivi non si verificò la tanto temuta emergenza sanitaria e l’ospedale venne restituito alla comunità gavardese.
"La leva del comando La vicenda sanitaria era gestita per le truppe Usa da miss Mary B. Lowry, dell’American Red Cross