IL CONTAGIO VISTO DA UNO SCRITTORE
Un amico scrittore che abita lontano mi ha mandato una lettera sull’esperienza che stiamo vivendo, alle prese con l’epidemia del coronavirus. Mi sembra talmente bella e profonda che la condivido con i lettori. «I flagelli — scrive — sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati. Quando scoppia una guerra, la gente dice: “Non durerà, è cosa troppo stupida”. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggine insiste sempre, ce se n’accorgerebbe se non si pensasse sempre a se stessi. I tuoi concittadini, al riguardo, prima del contagio erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre parole, erano degli umanisti: non credevano ai flagelli. Il flagello non è commisurato all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano, e gli umanisti, in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzioni. I tuoi concittadini non sono più colpevoli d’altri, hanno solo dimenticato di essere modesti, ecco tutto, e hanno pensato che tutto fosse ancora possibile per loro, il che supponeva impossibili i flagelli. Hanno continuato a concludere affari e a preparare viaggi, ad avere delle opinioni. Come avrebbero potuto pensare al contagio, che sopprime il futuro, i mutamenti di luogo e le discussioni? Essi si credevano liberi, e nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli».
Certo, un contagio evoca responsabilità individuali e collettive. «Io so di scienza certa — dice lo scrittore — che ciascuno lo porta in sé, il virus, e che nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune».
«Eso che bisogna sorvegliarsi senza tregua — aggiunge ancora lo scrittore — per non essere spinti, in un minuto di distrazione, a respirare sulla faccia d’un altro e a trasmettergli il contagio. Il virus è cosa naturale. Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, sono un effetto della volontà e d’una volontà che non si deve mai fermare. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile. E ce ne vuole di volontà e di tensione per non essere mai distratti; sì essere contagiati è molto faticoso; ma è ancora più faticoso non volerlo essere. Per questo tutti appaiono stanchi: tutti, oggi, si trovano un po’ contagiati. Ma per questo alcuni che vogliono finire di esserlo, conoscono un culmine di stanchezza, di cui niente li libererà. Il fatto è che ci sono sulla terra flagelli e vittime, e che bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi di essere col flagello».
L’amico scrittore condivide le lodi a tutto il personale sanitario che sta compiendo sacrifici di ogni sorta, anche se fa precedere l’elogio da una riflessione spiazzante. Sentite: «Dando troppa importanza alle buone azioni, si finisce col rendere un omaggio indiretto al male: allora, infatti, si lascia supporre che le buone azioni non hanno pregio che in quanto sono rare e che la malvagità e l’indifferenza determinano assai frequentemente le azioni degli uomini. Invece, nel flagello, si scopre che se una cosa si può desiderare sempre e ottenere talvolta, essa è l’affetto umano. C’è tuttavia una ulteriore cosa che si impara in mezzo ai flagelli, che ci sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare».
Come finirà il tutto? L’amico scrittore formula una previsione. «La liberazione, avvicinandosi, avrà un volto in cui si mescolano lacrime e risa».
Un bilancio a quel punto andrà fatto, anche a proposito della comunicazione, e del linguaggio usato in queste interminabili settimane: «Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po’ di retorica. Nel primo caso l’abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio».
Un «memento» terribile l’amico scrittore tuttavia lo lancia alla fine della sua lunga lettera: «Tutti abbiamo l’aria di credere che il virus può venire e andarsene senza che il cuore dell’uomo ne sia modificato. C’è poi una realtà che ignora la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il virus non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, il virus avrebbe svegliato i suoi portatori per mandarli a morire in una città felice».
Dimenticavo di dire che l’amico che scrive si chiama Albert Camus (1913-1960), amico mio come di tutti i lettori che da decenni ne ammirano l’opera, e che la sua lettera viene da molto lontano nel tempo, il 1947 esattamente che è l’anno di pubblicazione del romanzo «La peste» di cui la sua lettera rappresenta un collage di frasi dove la parola «peste» è stata sostituita dalle parole «virus» e «contagio».
N.B. Ringrazio l’amico Roberto Mazzoncini che mi ha ricordato che in tempi come questi anche la letteratura può essere un farmaco potente. E che «La peste» di Albert Camus lo è.