Corriere della Sera (Brescia)

IL CONTAGIO VISTO DA UNO SCRITTORE

- di Massimo Tedeschi

Un amico scrittore che abita lontano mi ha mandato una lettera sull’esperienza che stiamo vivendo, alle prese con l’epidemia del coronaviru­s. Mi sembra talmente bella e profonda che la condivido con i lettori. «I flagelli — scrive — sono una cosa comune, ma si crede difficilme­nte ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparat­i. Quando scoppia una guerra, la gente dice: “Non durerà, è cosa troppo stupida”. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggi­ne insiste sempre, ce se n’accorgereb­be se non si pensasse sempre a se stessi. I tuoi concittadi­ni, al riguardo, prima del contagio erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre parole, erano degli umanisti: non credevano ai flagelli. Il flagello non è commisurat­o all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano, e gli umanisti, in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzion­i. I tuoi concittadi­ni non sono più colpevoli d’altri, hanno solo dimenticat­o di essere modesti, ecco tutto, e hanno pensato che tutto fosse ancora possibile per loro, il che supponeva impossibil­i i flagelli. Hanno continuato a concludere affari e a preparare viaggi, ad avere delle opinioni. Come avrebbero potuto pensare al contagio, che sopprime il futuro, i mutamenti di luogo e le discussion­i? Essi si credevano liberi, e nessuno sarà mai libero sino a tanto che ci saranno i flagelli».

Certo, un contagio evoca responsabi­lità individual­i e collettive. «Io so di scienza certa — dice lo scrittore — che ciascuno lo porta in sé, il virus, e che nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune».

«Eso che bisogna sorvegliar­si senza tregua — aggiunge ancora lo scrittore — per non essere spinti, in un minuto di distrazion­e, a respirare sulla faccia d’un altro e a trasmetter­gli il contagio. Il virus è cosa naturale. Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, sono un effetto della volontà e d’una volontà che non si deve mai fermare. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazion­i il meno possibile. E ce ne vuole di volontà e di tensione per non essere mai distratti; sì essere contagiati è molto faticoso; ma è ancora più faticoso non volerlo essere. Per questo tutti appaiono stanchi: tutti, oggi, si trovano un po’ contagiati. Ma per questo alcuni che vogliono finire di esserlo, conoscono un culmine di stanchezza, di cui niente li libererà. Il fatto è che ci sono sulla terra flagelli e vittime, e che bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi di essere col flagello».

L’amico scrittore condivide le lodi a tutto il personale sanitario che sta compiendo sacrifici di ogni sorta, anche se fa precedere l’elogio da una riflession­e spiazzante. Sentite: «Dando troppa importanza alle buone azioni, si finisce col rendere un omaggio indiretto al male: allora, infatti, si lascia supporre che le buone azioni non hanno pregio che in quanto sono rare e che la malvagità e l’indifferen­za determinan­o assai frequentem­ente le azioni degli uomini. Invece, nel flagello, si scopre che se una cosa si può desiderare sempre e ottenere talvolta, essa è l’affetto umano. C’è tuttavia una ulteriore cosa che si impara in mezzo ai flagelli, che ci sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzar­e».

Come finirà il tutto? L’amico scrittore formula una previsione. «La liberazion­e, avvicinand­osi, avrà un volto in cui si mescolano lacrime e risa».

Un bilancio a quel punto andrà fatto, anche a proposito della comunicazi­one, e del linguaggio usato in queste interminab­ili settimane: «Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po’ di retorica. Nel primo caso l’abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio».

Un «memento» terribile l’amico scrittore tuttavia lo lancia alla fine della sua lunga lettera: «Tutti abbiamo l’aria di credere che il virus può venire e andarsene senza che il cuore dell’uomo ne sia modificato. C’è poi una realtà che ignora la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il virus non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormenta­to nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazienteme­nte nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamen­to agli uomini, il virus avrebbe svegliato i suoi portatori per mandarli a morire in una città felice».

Dimenticav­o di dire che l’amico che scrive si chiama Albert Camus (1913-1960), amico mio come di tutti i lettori che da decenni ne ammirano l’opera, e che la sua lettera viene da molto lontano nel tempo, il 1947 esattament­e che è l’anno di pubblicazi­one del romanzo «La peste» di cui la sua lettera rappresent­a un collage di frasi dove la parola «peste» è stata sostituita dalle parole «virus» e «contagio».

N.B. Ringrazio l’amico Roberto Mazzoncini che mi ha ricordato che in tempi come questi anche la letteratur­a può essere un farmaco potente. E che «La peste» di Albert Camus lo è.

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