IN ATTESA DEL DAY AFTER
Dopo, i salvati faranno il conto dei sommersi e fra le cifre della Waterloo epidemica scopriranno di aver perso conoscenti, amici di parenti, volti familiari. Dopo, gli abbracci negati e rinviati per settimane avranno un sapore diverso e scioglieranno — forse — in un calore ritrovato il sospetto che da giorni pervade tutti nei confronti di tutti. Dopo emergeranno i racconti degli eroismi e dei gesti di umanità compiuti con naturalezza nei reparti di rianimazione, nelle corsie d’ospedale, ovunque c’erano sofferenze da lenire, angosce da medicare, solitudini da consolare. Dopo, useremo con parsimonia il termine di «malasanità» e rifletteremo come non ci era mai capitato di fare su una delle più grandi conquiste di civiltà del Novecento che ha il nome di «Servizio Sanitario Nazionale».
Di solito si usa l’espressione inglese «day after» per indicare il momento in cui si misurano gli effetti di un cataclisma. Il «day after» del coronavirus sarà invece un momento di festa, forse persino di giubilo, anche se non potremo evitare di fare dei bilanci, di tirare delle somme non tutte e non solo – però - a risultato negativo. Dopo, faremo i conti su come ci ha cambiato in profondità questa esperienza: guarderemo in modo diverso i raduni di massa, i grandi riti collettivi che prima costellavano i nostri giorni. Dopo, ci domanderemo quanti dei nostri forsennati spostamenti in auto sono davvero necessari o sono invece una fuga da noi stessi. Ci chiederemo quanti delle occasioni della nostra socialità sono vitali, quante sono futili. Dopo, intratterremo un rapporto diverso con il consumo e i consumi, con i pomeriggi al centro commerciale, con la carta di credito e con i risparmi. Dopo, ci rimboccheremo le maniche come non avevamo mai fatto, perché i nostri genitori hanno visto la guerra ma noi sappiamo cos’è una pandemia, e sappiamo che c’è una nuova ricostruzione da fare. Dopo, faremo vedere noi a tutti cosa valiamo, perché dovremo ben dimostrare al mondo che il virus non ci ha piegato e che se siamo stati i primi in Occidente a guardare nell’occhio del maeltrom siamo anche stati i primi a riemergerne. Dopo, sapremo che i social possono alimentare un’enorme inutile chiacchiericcio ma possono anche rappresentare un ponte per accorciare distanze, abbattere muri di solitudine. Ci ricorderemo che le reti sono il sistema nervoso, la grande infrastruttura nascosta del nostro sistema, e ne avremo cura e le potenzieremo, sapendo che non servono solo ai passatempi ma al lavoro, allo stare insieme. E ci ricorderemo chi ha fatto un’informazione di qualità, ponderata, scrupolosa, e chi ha diffuso opinioni a vanvera alla ricerca di un click o di una claque. Dopo, i concetti di spesa pubblica, solidarietà europea, politiche comunitarie, assumeranno declinazioni inattese e oggi forse inimmaginabili. Ma anche le parole paese, rione, quartiere porteranno dentro l’eco delle cose viste e vissute in queste settimane: nel male, ma soprattutto nel bene. Dopo, smaltita l’euforia della festa, ci ritroveremo diversi. O forse no, avremo fretta di tornare come eravamo prima, di lasciarci tutto alle spalle, di dire “è passata la nottata”, di pensare “scordiamoci il passato”. Non potremo fare a meno di portarci dentro però un rovello, un dubbio, una domanda: e se tornasse? Nel frattempo, mentre continuiamo a chiedere «a che punto è la notte» a una sentinella che non ha risposte da darci, non resta che fare quello che – con grandissima dignità, a Brescia - quasi tutti stiamo facendo: rispettare le regole, applicare le cautele, accettare la dolorosa norma secondo cui per essere davvero utili dobbiamo fare un passo indietro, essere invisibili, stare isolati. Ci accorgeremo di uno straordinario paradosso. Ci accorgeremo che, nel chiuso delle nostre case, sotto le nostre noiose mascherine, nella solitudine dei nostri appartamenti, stiamo vivendo un destino condiviso. E tutti insieme stiamo inaspettatamente vivendo il valore racchiuso nella terza parola del motto della Rivoluzione francese. La parola meno laica e meno pronunciata. La più rarefatta e incompresa. La parola fraternità.