Le X Giornate La Leonessa nel «day after»
Non furono X ma XI Giornate Il racconto dei soprusi del 2 aprile Nonostante la resa, i vincitori infierirono con rapine e violenza ma continuarono a irrompere nelle case. E la città fu multata
In fin dei conti aveva ragione Giambattista Melzi a parlare di «Undici giornate di Brescia». Non le dieci conosciute da tutti, ma una in più. Il letterato nato a San Bartolomeo nel 1844, cioè quando il quartiere era comune a sé, scrive del povero Tito Speri: «Comandava gli insorti delle Undici giornate nella sua città». Non per aver sbagliato il conteggio, ma per precisa convinzione che il 2 aprile sia stato drammatico quanto il giorno 1, ultimo della decade iniziata il 23 marzo di 151 anni fa, come oggi...
A rileggere i fatti di quel secondo giorno d’ aprile, troviamo che gli imperiali, di buon mattino, chiudono le porte di Brescia. Vogliono catturare i responsabili dell’insurrezione che tentino la fuga. Nella rete cadono solo 18 popolani. Vengono impiccati poco dopo. Alle colonne della Loggia la gente trova incollato il proclama di Haynau, la jena. Nel suo sgangherato italiano impone, minaccia, pretende. Dopo il sangue, dopo gli scempi dei croati ubriachi con licenza di saccheggio, la città deve subire altri oltraggi. I vincitori non cessano di infierire in maniera subdola, dimentichi della resa sancita il giorno prima. Dice l’ordinanza: «Quattro ore dopo la pubblicazione armi e munizioni d’ogni sorta devono essere portate al Municipio e consegnate all’Ir Militare».
A vigilar le strade ci sono croati,stiriani il battaglione Baden Baden che il 31 marzo aveva subito uno smacco alle barricate di piazza dell’Albera. Ai violenti non par vero di veder passare per le armi i bresciani trovati con l’arma che vogliono consegnare. Anche il giorno 2 i vincitori continuano a irrompere nelle case. Sperano di trovare uno schioppo o una cartuccia, solo per uccidere. Gli abitanti entro le 5 sono costretti a rimettere a posto le strade sconvolte nei giorni della rivolta. «Le case che vi confinano, pagheranno una multa determinata»; questa la pena per chi non s’affretta a riassettare.
Del 2 aprile è anche la multa alla città che Haynau definisce «espiatoria»: sei milioni di lire austriache. Queste «levate secondo lo scudo d’estimo, si verseranno in rate mensili di 500 mila lire austriache». Prima tranche l’1 maggio, seconda un mese dopo. E avanti così fino all’ultima del 1 aprile 1850. Non bastasse: 300 mila lire da versare nel giro di tre mesi, ai soldati rimasti feriti o agli orfani dei caduti.
Denaro anche alle truppe rimaste a guardia della città «entro 36 ore un soprassoldo di sussistenza di una lira austriaca al giorno per uomo». Questo a partire dal 26 marzo al 6 aprile. Precisazione: «La forza delle truppe sarà notificata alla Congregazione Municipale. Per quelli morti nella lotta, ricevono le loro famiglie le quote rispettive».
Brescia non avrebbe mai pagato puntualmente la multa senza l’intervento di un suo figlio: Giambattista Rovetta (1833- 1885) padre del pittore Francesco Rovetta nonché membro dell’Ateneo. La sua famiglia aveva fatto fortuna fin dal 1792 sia con i negozi, sia con una fabbrica di tela e fustagni. Gianbattista aveva poi sposato Afra Ettori, figlia del fondatore di una azienda di latticini. Da munifico e generoso confratello della Congrega di carità diede buona parte dei denari alla municipalità senza che gli venissero chiesti. Fu un dono, non un prestito. Lo appagò il semplice grazie del podestà Faustino Feroldi, lo stesso che a maggio farà parte di una delegazione mandata a Vienna ad implorare il perdono dell’Imperatore.
Il giorno 2 si cominciano a contare i morti. Imprecisati ancor oggi. Per Carlo Cassola circa 300: per Giuseppe Nicolini da 300 a 600; per Cesare Contratti circa 600. Per Lucio
Fiorentini meno di un migliaio. Enormi i danni. 108 gli appartamenti saccheggiati, 46 quelli saccheggiati e incendiati, 8 i bombardati. 163 le famiglie colpite con danni per un totale in lire Austriache 229.602,86.
L’archivio della Cattedrale conserva novanta petizioni per danni subiti dalle singole famiglie. Da Porta Bruciata alla chiesa della Carità testimoniano la furia distruttrice dello straniero che stava sul gozzo ai nostri padri. Non mancarono
Le vittime
Il 2 aprile si cominciano a contare i morti Il numero resta impreciso ancora oggi
furti importanti e sacrileghe devastazioni. Spulciando a caso troviamo che Pietro Bodeo, fra tutti gli oggetti rapinati e distrutti, inserisce un quadro del Tintoretto (valore lire 50).
Paolo Chiarini, fabbricatore d’ostie e bollini in Porta Bruciata 24, scrive che ebbe «ostie particole e bolli calpestati non trovandone neppur uno di buono».