In prima linea in Poliambulanza la specializzanda di Geriatria celebrata dalla «sua» Roma
Se non credete che un gesto simbolico possa regalare un sorriso (il primo) ai medici in trincea, Flaminia Coccia — specializzanda geriatra alla Poliambulanza — potrà farvi cambiare idea. E deve dire grazie alla Roma, la sua squadra del cuore, che ha deciso di celebrare sui social i romanisti in corsia e non più i calciatori. Partendo proprio da lei, 31 anni, nata nella Capitale e giallorossa nel cuore, in città dal 2016 dopo la laurea alla Cattolica di Roma, chiamata a vivere da protagonista la più grande emergenza del dopoguerra a pochi mesi dalla laurea. «Tutta colpa di mio nipote: ha 11 anni — spiega — e ha saputo dell’iniziativa della società, mandando una mia foto sul posto di lavoro. Così sono stata scelta, a mia totale insaputa». Si è arrabbiata con lui?
«No, anzi. Lo devo solo ringraziare. Questa è stata la prima carezza da oltre un mese, ho ritrovato la felicità per qualche ora sentendo l’affetto di altri tifosi e degli amici. A casa sono sola: la mia gemella è a Budapest, mio fratello vive a Lavagna. Sarei dovuta tornare a fine febbraio dai miei genitori per un saluto. Poi è arrivato questo tsunami e noi geriatri siamo stati i primi ad essere cooptati: il Covid colpisce gli anziani con vite attive, “fit” come diciamo noi. Gli ottantenni sedentari hanno evitato il contagio con più facilità».
Quante ore passa in reparto?
«Arrivo alle 8, il mio turno è fino alle 18 ma ormai rimaniamo tutti ad oltranza. Cerco solo di andare a dormire presto, per mantenere le energie per i miei pazienti».
Quanti ne cura, ogni giorno?
«Nel mio reparto ne abbiamo 22 e dieci sono sotto la mia tutela. L’età media è attorno ai 60 anni, ma sono capitati anche trentenni».
Siete l’unico riferimento per i malati: come riuscite a metterli in contatto con le famiglie?
«L’aspetto psicologico è molto pesante, inoltre sono una specializzanda e la mia esperienza è limitata: non avrei mai pensato di farmi le ossa gestendo una pandemia in prima linea. Diamo conforto ai malati mettendoli in contatto, ogni pomeriggio, con i propri cari attraverso una videochiamata. Il problema è che il quadro clinico di ognuno può cambiare in modo repentino».
Quindi a volte queste telefonate diventano un addio
«Sì, è così. Difficile non farsi travolgere dallo sconforto»
Le è capitato?
«No, l’adrenalina per ora mi ha evitato un crollo. Mi sto anestetizzando, provando a trovare del cinismo in fondo al cuore. Ho visto però piangere colleghi con trent’anni d’esperienza: un dramma umano del genere non lo aveva mai affrontato nessuno».
Ci racconti una storia a lieto fine, ce n’è bisogno
«Qualche giorno fa è guarita una donna di 75 anni. Era stata divisa dal marito, ricoverato in un’altra città. Oltre alla sofferenza fisica, doveva convivere con questa angoscia. Sono stati dimessi lo stesso giorno. L’ho vista rinascere. Mi ha sussurrato: “Dica agli altri pazienti che non perdano mai la speranza”».
La sua tesi di laurea a ottobre sarà incentrata su quello che sta vivendo?
«Il lavoro era già stato impostato sulle valutazioni pre chirurgiche dei pazienti anziani. Con le altre specializzande abbiamo però creato un database: i numeri servono per aprire un binario utile alla cura».
Brescia-Roma deve ancora giocarsi. Spera di vederla allo stadio?
«Sarebbe bello, ma ora l’unica arma è la quarantena. E il rispetto per le regole. Se si giocherà, meglio a porte chiuse. I bresciani in questi giorni mi stanno insegnando molto: la Poliambulanza ha messo in atto una rivoluzione dei reparti trovando sempre una soluzione. La città non ha mai lasciato spazio alla rabbia, c’è chi lavora 24 ore, avete una tempra formidabile. Anzi, abbiamo. Ormai mi sento bresciana anche io».