Tra code e sirene La pandemia «a parole»
CODA
È un vocabolo che ci riporta all’attesa lenta o ferma e anche al termine di qualcosa di positivo o negativo. Pensiamo ai titoli di coda di un film o ai colpi di coda di un evento atmosferico. La coda oggi può essere facilmente percepita con la fila della gente davanti al supermercato o alla farmacia, con la processione di ambulanze all’ingresso del pronto soccorso, alla mesta parata notturna dei camion militari carichi di nostri cari senza più nemmeno il nome. Paventando poi possibili assembramenti ordinati per distribuzione di aiuti economici o direttamente alimentari prossimi venturi. O magari per salvifiche, oggi veramente agognate, vaccinazioni di massa. Ma, restando alla quarantena reale, «coda» ha il potere di suggerire quella coda di cavallo femminile intravista in una folla tra cui un’unica presenza emergeva o di evocare quella assolata e, oggi inspiegabilmente insopportabile, di quell’imbarco per vacanze sognate. Ma «coda», questa la incontrovertibile e grigia verità, è anche la situazione esistenziale di tutti noi, e forse nemmeno da oggi. Anche se adesso lo percepiamo meglio e con più urgenza. Siamo tutti in coda. Lo siamo forse addirittura dalla nascita, in attesa di un segnale del respiro, per noi, del telefono, per qualcun altro, o del sorriso, magari per tutti. Ognuno di noi è in coda per una chiamata ineludibile che, in tutti i casi, cambierà nel profondo la realtà.
CAMION
Un’altra parola che ricorre in questi giorni, apparentemente vuoti e apparentemente pieni. Parola francese che è pero di uso italico ormai da sempre, indica quell’autoveicolo mastodontico che porta merci ingombrando spesso la carreggiata di marcia lenta e, quando ce lo si trova sulla nostra in qualche strada stretta o secondaria, ci rallenta il viaggio in modo insopportabile. In condizioni di vita normali lo riteniamo perfino un pericolo se non, addirittura, un nemico e quindi causa di incidenti o di fastidiosi ingorghi. Alla figura del camion è associata ovviamente quella del «camionista», il suo conducente. E anche in questo caso, l’immaginario collettivo, alimentato da leggende e pregiudizi, ha rafforzato l’idea che questo lavoratore sia un tipo senza scrupoli, donnaiolo e bevitore, e che, sulle strade, in particolar modo dopo la pausa pranzo, costituisca un vero pericolo. Ora, in questo incubo globale che assomiglia a una disperata realtà, tanto da alimentare il sospetto che sia tutto tragicamente vero, il camion e soprattutto il suo conducente diventano eroi temerari quanto fondamentali. Instancabili quanto necessari. E allora li si vede, li si immagina, dominare le strade, li si sente arrivare e partire e incrociarsi e superarsi, li si sa sostare per mangiare e ripartire per consegnare, e ripartire ancora. Non si temono più e li si vorrebbe più veloci, più spericolati, più insonni. Nel silenzio notturno dei condomini tristi o delle case di campagna che paiono abbandonate, il camion appare un fantasma buono, luminoso e rassicurante, solitario per vocazione e puntale per contratto. Un padre che sta lavorando e che tornerà, stanco ma soddisfatto.
FUORI
Il luogo del sogno, della pace, del silenzio ricettacolo di frastuono futuro, di festa a venire. Luogo dell’incanto, di fine clausura, di fine galleria, di fine ricovero. Fuori, oggi, appare come il mare al largo o come il rifugio muto di un suono sgradevole. Penso a chi ha bimbi in casa, capricci a tavola o drammi piccoli in salotto, code in bagno e rifiuti serali. Penso ai vecchi, ai catarri, alle solite canzoni e ai numeri lontani da aggiornare. Penso alla poesia, alle parole secche e alla loro forma. Fuori, un deserto di sirene e di fantasmi in camice, una carreggiata senza sorpassi, una via senza incroci, una voce senza fiato.
SIRENA
Un incanto, un suono, un urlo. La sirena, classica e meravigliosa, guarda atterrita e stupefatta in attesa di immergersi nella profondità del mistero, di tuffarsi lontano dalla realtà umana preferendo il sogno sommerso e la dimensione ittica. La sirena, classica e favolosa, compie gesti muti rifuggendo sensi e parole che non conosce, distribuendo eleganza non raggiungibile ed erotismo impossibile anche da immaginare. Si liscia i capelli in attesa di sorridere di nuovo, in attesa di tornare a reincarnare libertà e trasgressione, fantasia e gioco fino allo sbando senza ritorno, clamore spaesato in chi la fissa o la spia. Alfine si avvia e scompare nell’acqua che si increspa appena, lasciando una scia che scuote il respiro e che sa di nostalgia e stupore. Si nasconde, cela le sue forme anche quando la si sente annunciare inizio turno o fine lavoro, pause o riprese, adunate o liberazioni, pericolo o sollievo. Anche quando acprofondissimi.
compagna il saluto di fumo delle navi in uscita o in arrivo. Poi, improvvisamente, lacera il silenzio urlando un’urgenza che pare dolore, una fretta che assomiglia al destino. Impossibile sapere se si avvicina o si allontana, se va o torna. Non più acqua, ma asfalto al galoppo; non più onde, ma curve da rischiare; non più scogli su cui ammaliare, ma ponti e dossi su cui accelerare. Quando poi tace, lascia una scia che scuote il respiro e che sa di sgomento, che sembra quotidiana inutilità.
E adesso si prepara il posto al vuoto.
VOCI
Circolano dappertutto, anche troppo. Trovano strade, pertugi e non conoscono ostacoli e non temono neppure il silenzio, anzi lo percorrono. Lo scrivono, incidendolo come vecchi aratri, come echi Conoscono perfettamente i tragitti e si intrufolano dappertutto, rovistando come ladri affamati o come coscienze spietate. Girano libere e imprevedibili: quando le si cerca fuori e le si chiama da lontano, ce le si trova dentro e poi bisogna faticare per farle tacere. E spesso non ci si riesce, neppure quando si tenta di sopraffarle, di coprirle rendendole irriconoscibili. Zittirle è impossibile, sono voci e potrebbero perfino disubbidire a se stesse. Anche quando aiutano e fanno piacere, si ha l’impressione che la loro volontà sia altra, sia più alta. Infatti poi girano ovunque, finendo per andare dove non devono, dove si cerca solo pace zitta o musica. Anche quando mancano, girano nella memoria e nei sonni, occupando corridoi e vecchi cortili. Voci metalliche, flebili, ridenti, amiche, incontrollate; voci di popolo, di lessico, voci di figli, di cori, di elenchi e di bambini, voci di corridoio o di corsia, voci assenti e irraggiungibili. Voci di fuori e voci di dentro, voci di fondo.