Le Usca restano ai box, per ora
Dopo un primo lavoro sul territorio si erano fermate. Qualche nucleo aveva fatto i tamponi nei drive in o ai dipendenti pubblici, ma erano comunque sottoutilizzate. Ora dovrebbero tornare attive.
«Le prime richieste di tamponi per i miei pazienti le ho inviate alle 8.30 di mattina»: i medici di medicina generale non hanno perso un minuto, e ieri, dopo l’arrivo del via libera alla richiesta di tamponi per pazienti con sintomi riconducibili al coronavirus, hanno iniziato a mobilitarsi per recuperare il tempo (loro malgrado) perduto.
La parola che ripetono è «finalmente»: perché la richiesta di fare tamponi, pressante, disperata soprattutto nel mese di marzo, quando chi aveva sintomi di Covid-19 rimaneva a casa senza diagnosi e in alcuni casi senza assistenza, è rimasta per molto tempo pressoché inascoltata.
Da ieri i medici di famiglia possono («finalmente») inoltrare all’Ats le segnalazioni per chiedere i tamponi per i pazienti sintomatici: i test naso-faringei per rilevare la positività al coronavirus, come stabilito dalla delibera di Regione Lombardia, possono essere eseguiti negli ambulatori privati o ospedalieri oppure negli ambulatori «drivein» (come quello che è in funzione da alcuni giorni in via Balestrieri).
I tamponi possono essere effettuati anche a domicilio.
In questo caso i tamponi richiesti dal medico di famiglia vengono effettuati dalle Unità speciali di continuità assistenziale, le Usca: i nove giovani medici che a inizio aprile hanno preso servizio come supporto ai medici di famiglia, sommersi di richieste da parte di pazienti sintomatici confinati nelle proprie case, ma sprovvisti di dispositivi idonei per effettuare le visite in totale sicurezza.
L’attivazione delle Unità speciali doveva servire come braccio operativo dei medici di famiglia, eppure le richieste di intervento indirizzate alla loro sede, in viale Duca degli Abruzzi, sono state di molto inferiori alle attese: «Le Usca erano utili ma sono state sottoutilizzate — ricorda Angelo Rossi, medico a Leno e segretario della Fimmig, la Federazione italiana dei medici di famiglia — anche perché sono arrivate tardi: nel frattempo i medici si erano attrezzati comprando da soli i dispositivi di protezione dove riuscivano a trovarli, e le visite quando possibile hanno continuato a farle loro».
Le Usca, che nel frattempo hanno ridotto ulteriormente il numero delle visite a domicilio, potrebbero rientrare in gioco, aggiunge Rossi, «se si riacutizzasse la pandemia, per visitare i pazienti a domicilio, o per sostituire i medici che nel frattempo si sono ammalati o sono in quarantena». Ora che la fase acuta è alle spalle, però, anche per le Usca si apre la «fase due», con l’incarico di eseguire i tamponi a domicilio per i nuovi pazienti sintomatici segnalati dai medici di famiglia.
Un’apertura che («finalmente») colma la mancanza di tamponi sui pazienti con sintomi nelle scorse settimane: «Anche se non possiamo ancora fare i test sierologici a tutti — continua Rossi — quello dei tamponi è un primo passo molto importante per i pazienti oligosintomatici o lievemente sintomatici. La vera scommessa sarà poi la diagnosi precoce nelle strutture ambulatoriali dedicate, perché oltre al tampone serve una diagnosi clinica: il 30% dei pazienti covid ha avuto un tampone negativo, quindi il test da solo purtroppo non esclude la presenza del virus».
Intanto con la possibilità di eseguire i tamponi a domicilio le Usca potrebbero alleggerire il carico sugli ambulatori mobili e ospedalieri. Con un nuovo interrogativo: «Non so se di questo passo riusciranno a evadere tutte le richieste e a fare tutte le analisi, sempre sperando che la curva non torni a salire», sottolinea Rossi. Anche perché, conclude il medico, «gran parte dei test sierologici sta dando esito positivo: questo significa che dovrà essere comunque fatto anche il tampone, e parliamo di migliaia di persone».