Ancora chiusi i centri disabili
In attesa del piano territoriale (lo rilascia la Regione) che indichi i tempi e modi della ripresa Nel frattempo le famiglie si sentono abbandonate
I centri diurni per l’assistenza ai disabili non sono ancora approdati alla Fase 2. Restano chiusi e lo sono dal 16 marzo. Sono in attesa delle direttive della Regione. E le famiglie dei disabili si sentono abbandonate.
Ci sono case in cui la fase 2 non è ancora arrivata e le giornate, tutte difficili, vanno in replica da dieci settimane. Dal 16 marzo, data in cui, dopo le incertezze iniziali (chiudete, rimanete aperti, chiudete) i centri diurni per disabili hanno sospeso le attività. Almeno quelle di gruppo: alcuni centri hanno avviato servizi individuali e online, per non disperdere del tutto le forze e non «abbandonare» famiglie con bambini, ragazzi e adulti fragili. Il tutto in attesa del piano territoriale — che deve essere rilasciato dalla Regione — che indichi i tempi e soprattutto i modi della ripresa: nel frattempo hanno riaperto aziende, negozi, ristoranti, parrucchieri e centri estetici, ma i servizi essenziali per i disabili sono via via scivolati in fondo alla lista.
Gli enti hanno portato le proprie richieste nel tavolo di confronto con la Regione, aperto tre settimane fa, ma ad oggi non è ancora arrivata la sintesi che renda operativi i centri. E a farne le spese sono soprattutto le famiglie: «Mia figlia Marta ha bisogno di assistenza continua — racconta Daniele — perché è affetta da autismo e anche se ha compiuto 18 anni non possiamo mai lasciarla sola. Le nostre giornate adesso ruotano interamente intorno a lei: cerchiamo di inventarci qualcosa di nuovo per distrarla e coinvolgerla ma le manca la sua routine, ci chiede ogni mattina quando può tornare al centro e non sappiamo cosa risponderle. È una situazione che ci fa soffrire: sono persone fragili che vanno tutelate e invece sono dimenticate».
Tre le richieste avanzate dalle organizzazioni del terzo settore coinvolte nel confronto con la Regione, come spiega Massimiliano Malè, direttore dei servizi della cooperativa Nikolajewka: «La flessibilità delle regole, che devono essere applicabili senza troppa burocrazia, la possibilità di fare sistema sul territorio seguendo linee guida comuni e lo stanziamento di risorse per i centri sulla base delle previsioni pre-emergenza, tenendo conto anche dei maggiori costi sostenuti per l’adeguamento alle norme di sicurezza».
Altri elementi fondamentali quello dei tamponi («Le procedure oggi sono più snelle») e dei dispositivi di protezione individuali («Si fatica a trovare i guanti, e questo è un problema», ricorda Malè).
La Lombardia è ancora una volta in ritardo rispetto ad altre regioni, dove i piani territoriali sono già operativi da tempo (come Veneto e Emilia Romagna): «Le famiglie sono in attesa di capire cosa succederà — spiega la presidente di Anffas Maria Villa Allegri — e noi siamo in attesa delle linee guida per la riapertura dei servizi. Molte regioni hanno già deliberato, occorre muoversi anche qui, anche perché questo clima di incertezza espone i centri a seri rischi di sopravvivenza».