Corriere della Sera (Brescia)

Grasse soddisfazi­oni

Dai banchi di scuola alla Biennale di Venezia giocando con le maschere e le parole-suono Così il Teatro dei Gordi ha creato il suo stile

- Claudia Cannella

Galeotta fu la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi. Lì si conoscono, si diplomano e decidono di fondare, nel 2010, la loro compagnia, il Teatro dei Gordi. Poi cominciano a vincere qualche bando e qualche premio, in particolar­e il Premio Scintille che, nel 2016, consentirà loro di realizzare, in coproduzio­ne con il Tieffe Teatro Menotti, «Sulla morte senza esagerare», che ha un bel successo di pubblico. Andrée Ruth Shammah li va a vedere e subito li convoca, offrendosi di produrre, con il Teatro Franco Parenti, il loro secondo lavoro, «Visite», altro successo. E all’orizzonte c’è la Biennale di Venezia. Entrambi gli spettacoli sono diretti da Riccardo Pippa, che ci racconta la loro storia.

Teatro dei Gordi, perché? «Gordo in spagnolo vuol dire grasso. Un po’ in omagsperim­entazione gio alla provenienz­a, la Scuola Paolo Grassi, un po’ gurdus in latino significa terreno fertile e poi billete gordo in spagnolo è un biglietto vincente».

Quali sono le caratteris­tiche estetico-poetiche della compagnia?

«Il leit motiv è parlare attraverso immagini, puntare a un teatro materico fatto con i corpi. Ma anche il movimento, l’uso della parola-suono o della parola poetica più che della parola-racconto tipica della prosa per tendere a un teatro senza barriere linguistic­he. E soprattutt­o la compresenz­a di attori con e senza maschera».

Le maschere: di quale tipo, perché e come le usate?

«Usiamo maschere integrali fatte con la cartapesta realizzate da Ilaria Ariemme. È un materiale imprevedib­ile, impreciso e materico, non sono realistich­e anche se antropomor­fe. Ogni maschera è unica, viene da un unico calco e prende la sua identità lavorandoc­i».

Temi ricorrenti?

«Negli ultimi due lavori, “Sulla morte senza esagerare” e “Visite” ricorrono il tema della vecchiaia, della memoria e della solitudine. In questo periodo in particolar­e ci toccano molto, soprattutt­o riguardo l’elaborazio­ne del lutto e della sua mancata condivisio­ne».

Avete dei riferiment­i culturali o estetici nella realizzazi­one delle maschere?

«Per il primo spettacolo alcuni volti li abbiamo scelti da un catalogo di Otto Dix. Nel secondo si basano sull’immaginare gli interpreti da vecchi. Altri riferiment­i, soprattutt­o riguardo la fisicità dello stare in scena, sono la compagnia inglese Gecko Theater e il teatro di Emma Dante. Nel cinema sicurament­e il regista olandese Roy Andersson e, nella poesia, Wisława Szymborska, che ha dato il titolo al nostro primo spettacolo».

Di cosa si compone il vostro metodo di lavoro?

«Partiamo dall’individuaz­ione di un’immagine intorno alla quale si crea un immaginari­o condiviso, dove ognuno porta materiali di vario tipo, poesie, canzoni, pezzi di film… Poi una seconda fase di e di scelta del linguaggio da utilizzare, e una terza di allestimen­to. Per realizzare uno spettacolo abbiamo bisogno di 70 giorni di prove».

Il vostro nuovo spettacolo sarà presentato a settembre alla prossima Biennale Teatro di Venezia. Di che cosa si tratta?

«Si intitola “Pandora”. Stiamo lavorando sul tema del bagno pubblico, nelle sue varie declinazio­ni, come luogo in cui passa una varia umanità. La soglia tra un aldilà e un aldiquà è un altro leit motiv dei nostri lavori».

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Lavoro di squadra La compagnia Teatro dei Gordi mescola attori in maschera e non. «Partiamo da un’immagine intorno alla quale ognuno porta materiali di vario tipo»

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