Un Beethoven più svelto
Lonquich lancia la Verdi in una lettura «accelerata» della seconda sinfonia
«Arrivo a Milano direttamente dal fes t i v a l di Lockenhaus, dove ho gustato la gioia di tornare a fare musica insieme ad amici, davanti al pubblico; non so come sarà dirigere e suonare con l’orchestra nelle nuove condizioni imposte dalle misure sanitarie, ma posso ben immaginare che in Auditorium vibrerà un’immensa voglia di suonare». Alexander Lonquich è da stasera ospite d’onore della Verdi, pianista e direttore nel quarto concerto e nella seconda sinfonia di Beethoven. Davanti a lui un’orchestra di soli 35 elementi, debitamente distanziati.
«Ho in mente una certa interpretazione dei brani e ho le mie idee su come andranno eseguiti, ma per ora sono idee: devo vedere come rispondono i professori in queste condizioni; mi piacerebbe farli suonare in piedi, come ancora si usava all’epoca. Sicuramente spingerò per tempi rapidi, scattanti: la seconda è una sinfonia compatta, a differenza della successiva “Eroica”, oggi assai più popolare, riscosse subito grandi consensi tra i contemporanei». Il quarto concerto per pianoforte si immerge in atmosfere ben diverse dall’incalzante scintillio della sinfonia in re maggiore: «Lo ritengo il primo concerto integralmente beethoveniano: i primi due sono ancora molto classici, anche il terzo è in vari punti stretto debitore del modello mozartiano, col quarto invece il linguaggio e la struttura si rendono autonomi, possiedono un’originalità totale. Il lirismo che si diffonde senza soluzione di continuità lungo tutto il primo movimento, l’abissale profondità della parte centrale, che ha spinto alcuni critici a vedervi una rivisitazione del mito di Orfeo e altri una preghiera espressa dal pianoforte, l’asimmetria del finale che provoca quel senso di ironia così tipico in Beethoven: in ogni momento questo brano si presenta come l’opera di un autore ormai entrato nel pieno della maturità e della propria autonomia artistica». Tra le particolarità non va dimenticato il piglio cameristico: per due terzi del concerto Beethoven chiede al pianista di suonare tra il piano e il pianissimo, con rare accensioni verso il mezzo forte: «Un aspetto decisivo, che ho ancor meglio compreso quando l’ho suonato al fortepiano, lo strumento dell’epoca meno potente degli attuali Steinway; oggi un fagotto che suona col solista deve per forza spingere sul forte, ma Beethoven in partitura gli richiede il piano: è difficile oggi trovare questo bilanciamento, ma se ci si riesce l’effetto è sublime».
Come tanti colleghi Lonquich ha visto annullare tutti gli impegni fino a ottobre, anche se adesso, come confermano Lockenhaus e la Verdi, qualcosa si muove: «Certo, il dispiacere c’è stato, ma non ho mai pensato troppo al futuro: mi sentivo pronto ad accettare quello che sarebbe venuto. Ho anche la fortuna di avere una moglie pianista (Cristina Barbuti, ndr), con cui spesso suono, e anche adesso con lei posso affrontare il repertorio a 4 mani, condividendo tastiera e sgabello, vicini vicini; oggi è un bel privilegio…».
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Ho potuto compensare la solitudine di questi lunghi mesi suonando a quattro mani con mia moglie Cristina