Ergastolo per uxoricidio «Non fu suicidio»
Per i giudici la vittima non era depressa, anche se viveva un matrimonio infelice
La Corte non ha creduto all’ipotesi del suicidio e ieri, per la morte di Mina Safine ha condannato il marito. Ergastolo, è stato sentenziato in aula — così come chiesto dal pm Cati Bressanelli — al termine del processo di primo grado che ha visto sul banco degli imputati Abderrahim Senbel, 55 anni, originario del Marocco. L’uomo è stato ritenuto colpevole della morte della moglie, prima cosparsa di liquido infiammabile e poi data alle fiamme. La donna era morta dopo 7 giorni di agonia al Centro ustionati di Genova.
La Corte, presieduta dal giudice Roberto Spanò, non ha creduto all’ipotesi del suicidio e ieri, per la morte di Mina Safine ha condannato il marito. Ergastolo, è stato sentenziato in aula — così come chiesto dal pm Cati Bressanelli — al termine del processo di primo grado che ha visto sul banco degli imputati Abderrahim Senbel, 55 anni, originario del Marocco.
L’uomo è stato ritenuto colpevole della morte della moglie, prima cosparsa di liquido infiammabile e poi data alle fiamme. La donna era stata trasferita nel Centro Grandi ustionati di Genova, dove però, dopo sette giorni di agonia, aveva perso la sua battaglia contro quelle ustioni devastanti.
Teatro dell’omicidio era stato il loro appartamento in via Tiboni a Urago Mella, Brescia: qui, forse a causa di una discussione tra i due, si è innescata la tragedia la sera del 27 settembre del 2020.
«Abbiamo scavato nella vita familiare – ha spiegato ieri il pubblico ministero – e non è emersa una situazione di maltrattamenti, bensì un matrimonio che stava diventando infelice». I figli mai arrivati, qualche problema economico e, poi, il fatto che l’uomo, addetto alle pulizie di un albergo di Lazise, fosse lontano da casa per sei giorni su sette durante la settimana: quando rincasava, non si dedicava abbastanza a lei.
Tutti motivi di tensione, ma soprattutto di infelicità della donna. «Nelle cartelle cliniche non c’è traccia di profili di depressione (che, secondo i difensori di Senbel sarebbe stato il motivo del gesto estremo, ndr)», ha sottolineato il pm, che ha pure ricordato la drammatica telefonata al 112 (dopo quella fatta alla migliore amica e alla cugina), gridando «Mio marito mi ha bruciata», per chiedere aiuto.
«Se avesse voluto ucciderla, avrebbe mai potuto consentirle di fare quelle chiamate, in cui ha dapprima dichiarato “Mi sono bruciata” e poi ha detto “Mio marito mi ha bruciata”?” ha chiesto il difensore di Senbel, Daniele Fariello.
«Se fosse stato colpevole ha poi continuato - avrebbe prestato le prime cure, spegnando le fiamme con una coperta e chiedendo aiuto dal balcone per allertare i soccorsi?».
Secondo la difesa mancherebbe un movente e anche l’arma del delitto, dal momento che sull’accendino utilizzato per appiccare il fuoco analizzato dal Ris di Parma – non ci sono impronte dell’uomo. In quei frangenti anche Senbel aveva riportato ustioni che avevano richiesto un ricovero di 6 mesi in ospedale. Mentre le fiamme la divoravano, Mina Safine aveva stretto a sé il marito. Ora, tra trenta giorni, è prevista la pubblicazione delle motivazioni della condanna al carcere a vita.