Corriere della Sera (Brescia)

CASA D’ARTISTA OFFRESI

- Di Massimo Tedeschi

Le case d’artista emanano un fascino speciale. Parlano di chi vi ha vissuto, svelano i luoghi del lavoro intellettu­ale, della scrittura, della creatività. Dicono dell’umanità dell’inquilino ma anche della temperie di un’epoca. Ce ne sono oltre un centinaio, musealizza­te, in tutta Italia. Villa Verdi a Sant’Agata, Palazzo Leopardi a Recanati, il buen retiro di Petrarca ad Arquà e di Puccini a Torre del lago, per non parlare del Vittoriale di D’Annunzio a Gardone Riviera, sono tappe di una pedagogia storico-estetica nazionale. Poi ci sono le case, non meno fascinose, di artisti e intellettu­ali più appartati. L’abitazione del filosofo Emanuele Severino a Brescia è stata preservata e sta diventando un Centro studi. Tutele e aperture meriterebb­ero le caseatelie­r di Franca Ghitti a Cellatica e Antonio Stagnoli a Bagolino. Uno scrigno e una gloria tutta bresciana è la casa di Vittorio Trainini (1888-1969) a Mompiano. Un edificio fatato, che molti hanno avuto la fortuna di visitare grazie alle Giornate del Fai e alla disponibil­ità del figlio del pittore, Gianluigi Trainini. Vittorio Trainini non è stato un artista qualsiasi. Esponente della grande decorazion­e bresciana (quella dei Cresseri e dei Coccoli, di lui poco più anziani) Trainini è il pittore «delle cento chiese» per il numero imponente di templi che ha affrescato a Brescia ma anche a Roma e Lugano. Trainini era aggiornato circa il dibattito sull’arte sacra che attraversa il Novecento e aveva un metodo di lavoro originale.

Volendo, sono anche 30 anni da quando i genitori affidarono ad Emanuele la gestione aziendale: non ha tradito la missione, ma ci ha messo (molto) del suo, con una personalit­à eclettica, il senso innato della qualità e un savoir faire che non tutti i suoi colleghi possono esibire «Un vino buono nasce, prima che in vigna, da un’idea che solo il tempo, l’esperienza e la passione possono realizzare» è la sua stella polare.

Rabotti, l’effetto speciale del 50° anniversar­io è la nuova cantina. Il primo pensiero di mezzo secolo di attività invece quale è?

«L’orgoglio di aver seguito la crescita della Franciacor­ta, sin da quando ho iniziato ad aiutare i miei genitori in azienda, e di aver fatto del Cabochon la pietra miliare di Monte Rossa. I miei sono stati tra i pionieri del vino, papà nel 1978 ha iniziato a ragionare sul concetto vincente: “Io sono se noi siamo”. Ha unito gli imprendito­ri che avevano già capito le potenziali­tà del nostro territorio e volevano valorizzar­lo. Puntando sulla specializz­azione nelle bollicine che si è rivelata in definitiva l’arma vincente ed è stata alla base della nascita del Consorzio di cui è stato primo presidente. Mai dimenticar­e che il sistema Franciacor­ta resta fondamenta­le per stare sul mercato, con un margine di crescita ancora notevole».

In questo sistema, come si inserisce Monte Rossa?

«Una delle aziende storiche, fissata con il territorio che abbiamo curato e continuiam­o a curare con amore. Mi considero ancora un artigiano che segue tutta la filiera, all’insegna della qualità assoluta, mantenendo una gestione familiare. Ma con una produzione tra le 400 mila e le 600 mila bottiglie l’anno, che permette di venderne sulle 500 mila».

È la qualità che ha conquistat­o Oscar Farinetti, uomo di vino e socio di minoranza: di solito, lui gestisce aziende quindi lei è stato molto bravo a tirarlo dentro.

«Lo conoscevo prima dell’accordo societario. Più del lato economico, la soddisfazi­one è stata proprio conquistar­e un personaggi­o di questo livello, per di più piemontese ossia figlio di un territorio che fa vino da secoli. Un grandissim­o imprendito­re, che ha creato qualcosa nel cibo di cui si sentiva il bisogno ma non esisteva risposta sul mercato: Eataly ha segnato il tempo. Ma soprattutt­o è un padre bravissimo che sta delegando a tre figli in gamba: è quello che conto di fare io. Il mio più grande, 20 anni, studia enologia a Milano e sono felice che abbia scelto di seguire la mia strada, in modo autonomo».

La ripresa è evidente, le vendite del Franciacor­ta stanno superando quelle del 2019: c’è la forte tentazione di alzare la produzione. La sua opinione?

«Dobbiamo crescere, ma in maniera intelligen­te: lenta, graduale, più sfruttando vigneti vecchi che impiantand­one di nuovi. In cinque anni, ha senso arrivare a 25-30 milioni di bottiglie come standard: non credo nelle crescite improvvise, spesso frenate negli anni a venire. Poi, sarà

La cantina

Si trova a Barco di Cazzago San Martino ed è quasi totalmente interrata per non essere invasiva scontato, ma i fattori climatici sono una componente sempre più complicata da gestire. In ogni caso, se c’è un aspetto dove la seconda generazion­e dei franciacor­tini come me può sentirsi diversa dai padri è la fine della sudditanza verso lo Champagne. Stiamo facendo un’altra corsa, su altri numeri e obiettivi diversi. Guardi che è un passaggio importante».

Scendiamo a Brescia: primo bilancio dell’operazione Pusterla?

«Dopo la terza vendemmia inizio a capirne qualcosa, di sicuro il suo frutto, che è il bianco Bastione, migliora costanteme­nte ma soprattutt­o mi sto divertendo un sacco. Il solo fatto di gestire il vigneto urbano più esteso d’Europa è unico, poi sono orgoglioso di avere riportato in auge il vitigno autoctono Invernenga».

A proposito di orgoglio bresciano, un consiglio non richiesto per il 2023 quando la città sarà Capitale della Cultura, insieme a Bergamo?

«Brescia è una città bellissima, con una storia importante. Chi riesce ad arrivarci e ha tempo per scoprirla torna sicurament­e. Bisogna raccontarl­a, mostrare il meglio. Basta solo lucidare gli ottoni come dice sempre mia madre».

Immaginiam­o che non sia cambiata l’abitudine che alla signora Paola, 90 anni, spetti l’ultimo verdetto su una Cuvée?

«Ha un palato finissimo e un’esperienza enorme. Anche io colgo le sfumature minime di un vino come i miei enologi: ma trova regolarmen­te quella migliore ed è scelta insindacab­ile. Per fortuna, siamo sempre d’accordo».

Per gli appassiona­ti: scelga tre annate storiche di tre grandi Monte Rossa.

«Cabochon 1999 e 2014, poi il Salvadek 2004. Spero che diventi iconica anche la bottiglia che abbiamo preparato per celebrare il 50°: P.R. Blanc de Blancs, 100% Chardonnay. Per me è il biglietto da visita di Monte Rossa oggi e un omaggio ai miei genitori. P.R. sta per Paolo Rabotti e Paola Rovetta».

Rabotti, sa che lei passa per una persona sempre di buon umore? C’è un segreto?

«Ho avuto la fortuna di ereditare l’attività dai miei genitori, considero il mondo del vino non un gioco ma comunque un piacere. Non sono un invidioso, tanto che non parlo mai di concorrent­i ma di colleghi: se uno è più bravo di me, cerco di capire come posso diventarlo. Poi fare il vino è un lavoro bellissimo, ogni anno si racconta una storia nuova».

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