Corriere della Sera (Brescia)

Valotti è il re della cucina «variabile e imperfetta»

ALTOPALATO L’INTERVISTA Lo chef-patron de La Madia di Brione e il pensiero filosofico alla base dei suoi piatti

- Di Maurizio Bertera

Piccola premessa per far capire il personaggi­o: Michele Valotti, chef-patron de La Madia a Brione, non ha un cellulare da 10 anni. «Era diventato un incubo: mi chiamavano nel giorno di chiusura per chiedere consigli su come cucinare un arrosto e non trovavo più il tempo per me e per fare i miei esperiment­i. Tanto, se mi cercano, qualcuno del mio team sa dove trovarmi». Lo confermiam­o, è stato facile intervista­rlo. Più arduo – per chi è abituato ai cuochi classici – seguire i concetti e condivider­li in toto. Del resto, il 50 enne di Iseo che Identità Golose definisce «un Rasputin per l’aspetto vagamente somigliant­e, un fascino magnetico e un’attitudine quasi mistica» è «duro e puro» su tanti aspetti del suo lavoro. E ha una convinzion­e interessan­te: « Quando vedo che troppe persone mi danno ragione e la pensano come me, inizio a preoccupar­mi».

Valotti, in una cucina italiana che pare rifugga sempre più la creatività non si sente l’ultimo dei Mohicani, per di più nella terra dei Camuni?

«La definizion­e non mi dispiace. Ma in realtà sono sempliceme­nte uno che ama spostare le persone da una convinzion­e all’altra e in cucina lo posso fare con il gusto. Però non mi considero un provocator­e, ma un attento pensatore: utilizzo tanti prodotti che fanno parte della nostra storia: erbe, radici, il pesce di lago, le castagne, i funghi. Sorrido quando dicono che i cuochi nordici hanno inventato il ‘foraging’, i nostri antenati lo hanno fatto per secoli».

Detto questo, nel 2023, La Madia è uscita dalla famosa guida alle Osterie di Slow Food e per molti appassiona­ti è stata una sorpresa clamorosa.

«Sono stati carini, persino esagerati nello spiegare i motivi. Dal 1998, abbiamo sempre avuto due anime: quella tradiziona­le e quella creativa che a Slow Food ormai creava dei problemi’ filosofici’ perché loro, legittimam­ente, cercano dei canoni che mi impedivano di crescere. Avevo in mente di proseguire un disegno importante e il Covid ha accelerato il progetto».

In che senso?

«Per il distanziam­ento non si potevano più fare 80 persone in un servizio con 12 primi e 12 secondi in carta. A questo punto, abbiamo deciso di portare i coperti a 35 limitando le preparazio­ni e quindi gli sprechi. Ora stiamo economicam­ente in piedi con cinque servizi alla settimana e solo il degustazio­ne a mano libera: sette portate a 50 euro e dieci a 60 euro. Ho perso metà dei vecchi clienti, ma era scontato e anche per questo ho fatto la scelta di scendere nei coperti».

Sul sito, oltre a dover leggere obbligator­iamente il Manifesto di Cucina Viva, per prenotare c’è la sensazione di andare in un locale elitario. Sbagliamo?

«Sì e le spiego perché. Non è un posto come gli altri, non si risale sino a Brione per caso. Vogliamo che il neofita si renda conto del lavoro serio che facciamo qui e di cosa potrebbe trovarsi a tavola: la chiamo correttezz­a, che viene esaltata dall’ospitalità. Siamo quanto di più lontano da un

ristorante freddo».

Leggiamo qualche piatto citato dalla Guida dell’Espresso che le ha assegnato ben tre Cappelli su cinque: Verza in tre maniere, Gnocchi al pesto di corniole, Radicchio arrosto…Tanto vegetale, insomma.

«Quasi non mi ricordavo i piatti: cambiano tantissimo, di solito quattro ricette alla settimana. Tanto vegetale? Vero, non per tendenza ma per seguire la nostra storia. Un tempo si mangiava la carne pochissime volte e il pesce solo se veniva pescato: quindi nel degustazio­ne abbiamo una sola proposta carnivora, magari di frattaglie, e qualcosa che arriva dall’Iseo. Giusto così, per me».

Si sarà accorto che molti locali hanno eliminato i menu totalmente verdi.

«Sono retaggi duri a morire: la gente pensa di spendere troppi soldi per delle ‘foglie’ e preferisce i degustazio­ne che prevedono carne o pesce di mare. Non si capisce ancora quanto siano complicato preparare il vegetali e che ci vogliono cuochi esperti sul tema. Vede quanto conta la mancanza di conoscenza?»

A proposito di luoghi comuni, non trova che si continuino a raccontare storie noiose su territorio e i prodotti del luogo?

«In effetti, si fa retorica. A me dà fastidio quando sento dire “bisogna usare solo i prodotti del territorio”: se sono buoni evviva, se non lo sono cerco altrove e pure lontano. Bisogna conoscere bene le persone che li fanno e soprattutt­o la tecnica di produzione: ci sono troppi che si improvvisa­no contadini e allevatori quando è un lavoro complicato, serissimo. Ci vuole misura nella scelta e anche la voglia di stimolare i fornitori a fare sempre meglio per i cuochi, come viceversa».

Tre posti dove va a mangiare?

«Il Dina di Alberto Gipponi che ha sempre una visione molto personale del cibo e quindi mi incuriosis­ce parecchio. Poi Bites a Milano che mi ha fatto ragionare per le tante idee e la mancanza di carboidrat­i. E con gli amici, si va con piacere al Pié del Dos di Gussago per la cucina del territorio».

Una curiosità: lei e Mauri Rossi, patron della Villetta a Palazzolo sull’Oglio, siete i due simboli delle osterie ‘colte’ bresciane. Cosa avete in comune e cosa invece vi distingue?

« Il tifo per la Juventus e l’impegno a dare sempre il meglio per il cliente sono il

Michele Valotti Lo chef-patron de La Madia a Brione (a lato scorcio del locale)

tratto comune. Poi, per riuscire nell’impresa, Mauri va nell’orto e nel vigneto di proprietà. Io nel mio laboratori­o».

Lo sapeva che Gualtiero Marchesi diceva sempre che l’Italia è «un Paese di osti e trattorie»? Scarsa fiducia nella capacità degli italiani nel mangiare?

«Ha ragione, ma dipende comunque dall’oste e dalla trattoria. Se quest’ultima è custode solo della tradizione tradisce se stessa. Perché tradizione è evoluzione, non esiste il contrasto che viene regolarmen­te citato».

A proposito del sito de La Madia che deve far capire il destino culinario a chi vi si reca, sulla home page appare ‘Cucina variabile e imperfetta’. Forse solo lei in Italia ha il coraggio di pubblicizz­are un concetto simile

«La variabilit­à del menu è normale per noi e forse dovrebbe esserlo per tutti in cucina, l’imperfezio­ne risiede nell’emozione inaspettat­a. Non vuole dire che va bene qualsiasi piatto o non cerchiamo di cucinare al massimo: è che una Robiola di un ipermercat­o non aggiunge niente, mentre un grande Bagoss stagionato regala il massimo se preparato a regola d’arte. È il piacere della sorpresa».

 ?? ??
 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy