Corriere della Sera - Io Donna
Quando sono partito per Londra dopo il diploma, le mie otto sorelle credevano che sarei tornato presto. Mia madre, invece, no
grande famiglia, appassionatamente legata a questo unico figlio maschio: il numero nove dopo otto sorelle. Il talento coraggioso, ostinato, che dopo aver studiato design all’Istituto Statale d’Arte di Cantù si era trasferito a Londra senza conoscere l’inglese e di fatto senza denaro.
«Volevo trovare una mia identità e un lavoro, anche se non avrei mai pensato di arrivare così lontano. La mattina, all’aeroporto di Linate, mentre stavo per imbarcarmi sull’aereo, mia sorella pensando di consolare la mamma diceva: “È giusto un’esperienza, vedrai che tra un paio di mesi ritorna”. Mia madre invece, abbracciandomi forte disse: “Figlio mio, tu non tornerai più indietro e avrai tanto successo”. È stata lei a darmi la forza in questi ultimi anni».
Convinto com’è che sia il progetto di lavoro a sceglierti e non il contrario, racconta che mai, nei primi tempi, avrebbe pensato di riuscire. Aveva lavorato con brand come Antonio Berardi («Il primo e unico direttore del quale sono stato assistente, dopo che mi ero laureato al Central Saint Martins College of Art and Design nel 1999. Un amico»), Puma e Ruffo Research, e aveva lanciato la propria collezione indipendente nel 2004 quando riceve dalla Maison Givenchy la classica offerta che è impossibile rifiutare, ma preoccupa accettare.
«Essere giudicato ogni sei mesi portando la responsabilità di un nome che significa la grazia e l’eleganza più rigorose, sostenere questi esami sapendo che ogni cambiamento sarà criticato da chi apprezza soltanto i tubini di Audrey Hepburn in
mi dava ansia, mi angosciava. Poi, a un certo punto, mi sono messo il cuore in pace. Perché infine facevo - faccio, quello che penso sia giusto. Cerco di non sbagliare, ma penso che sbagliare è umano. E tento