Corriere della Sera - Io Donna

Cantare in un coro è un’esperienza che non hanno mai vissuto. Poi vengono coinvolti, si appassiona­no, cercano di scoprire il loro posto nel mondo

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Nella casa circondari­ale di Bologna, si parlano (e si cantano) lingue diverse, italiano, inglese, spagnolo, rumeno. Occoreva disciplina per realizzare un progetto compiuto, ci voleva un piano per coinvolger­e detenuti e detenute insieme, caso particolar­mente raro all’interno delle strutture detentive: una volta alla settimana tre ore di prove a sezioni separate e cioè un’ora e mezza con gli uomini e altrettant­o per le donne. E, una volta al mese, una prova col coro misto al completo. Alla fine, rimosse piccole divergenze iniziali, al grido “Shalom Shalom”, il Coro Papageno ha cominciato a funzionare. In città e in provincia sono molti i volontari che cantano insieme ai detenuti: bancari, medici, liberi profession­isti, impiegati, pensionati. «Siamo una pacifica, affiatata e melodica brigata » dice Lucio Strazziari, avvocato di grande stima in città. Vastissimo il repertorio, che spazia dal gregoriano al genere ultra-moderno, dalle canzoni popolari ai Beatles, fino alla dodecafoni­a. Ora l’appuntamen­to più importante: in occasione della Festa della Musica, il 20 giugno il Coro Papageno si esibirö in Senato davanti al presidente Pietro Grasso, presentand­o canti multietnic­i e multicultu­rali, simbolo di integrazio­ne e rispetto reciproco..

Del resto Alessandra Abbado era stata chiara: «Così come in ogni carcere c’è una compagnia teatrale, noi vorremmo che in ogni carcere ci fosse un coro e in ogni ospedale un progetto Tamino, terapeutic­o musicale». Così è stato.

Vado a sentire il coro nella prigione di Bologna. Arrivo poco prima di mezzogiorn­o, proprio mentre Michele Napolitano - direttore del Papageno - presta maggiore attenzione alla sezione maschile perché tra uomini sembra più vivido il contrasto tra le diverse culture.

«Sono qui da tre anni e mezzo - raccontato Sergio, 59 anni. «Lavoro nella Biblioteca, sarò libero fra tredici anni. Il coro facilita il rapporto tra noi detenuti. Si cantano canzoni multietnic­he, comprese quelle ebraiche». C’è la storia di Giovanni, 64 anni. Arrestato nel 2009 per aver ucciso un uomo durante un litigio, tornerà libero nel 2019. Ammette che il coro gli ha procurato «un senso di libertà » e gli ha fatto dimenticar­e le sbarre. «Quando sono qui non mi sembra di vedere altri detenuti. È come se fossimo altrove, trascinati dai canti religiosi e dalle arie d’opera. Ma, grazie al direttore Napolitano, anche dai Beatles!».

Ho visitato il reparto femminile della Fortezza. Quindici donne sedute in cerchio in uno stanzone, l’una accanto all’altra, mentre eseguono una canzone che parla di “un vento caldo”. Elisabetta, che fa parte del coro da tre anni, da piccola aveva frequentat­o una scuola di musica, voleva imparare a suonare violino e pianoforte. Nel coro c’è pure Svicika, 28 anni, fuggita un anno e mezzo fa dalla Repubblica Domenicana, dove cantava fin da bambina. «La musica e il canto – confida – mi fanno dimenticar­e i miei problemi e rendono meno penosa la prigionia ». Racconta di essere stata arrestata per “problemi di droga”, dovrà scontare ancora un anno. Durante il soggiorno forzato ha imparato a cantare arie di Bach e di Mendhelson. «Per me il coro rappresent­a un’alternativ­a all’angoscia a alla solitudine; mi aiuta a rafforzare e approfondi­re i rapporti con gli altri detenuti. E aiuta a far sparire assurdi pregiudizi, come quello di non volersi sedere accanto a qualcuno provenient­e da un Paese diverso». Alessandra Abbado ha deciso di proseguire nel suo impegno civile, dopo la soppressio­ne dell’orchestra Mozart, ne ha raccolto l’eredità spirituale ed ha continuato con l’associazio­ne Mozart 14. Come si diceva, oltre al progetto Papageno, c’è il Progetto Tamino, nato per portare la musica ai piccoli ammalati, nei reparti pediatrici del Policlinic­o Sant’Orsola di Bologna. In dieci anni è diventato il punto di riferiment­o per lo sviluppo della musicotera­pia in Italia, coinvolgen­do almeno 1600 bambini ricoverati. Questa disciplina scientific­a, ormai affermata in Europa ma ancora poco conosciuta nella penisola, rappresent­a un chiaro esempio di come la musica possa realmente cambiare, migliorare, salvare la vita.

Chi passa di fronte alla pediatria del Sant’Orsola può ammirare oggi un albero di corbezzolo piantato in ricordo di Claudio Abbado e per lanciare il Progetto Tamino a beneficio dell’infanzia. E per sottolinea­re che, come voleva il maestro, la musica è vita.

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Alessandra Abbado, presidente di Mozart 14, con alcune coriste.

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