Corriere della Sera - Io Donna
la mia impresa contro il cancro
Da vent’anni segue un’intuizione. Quando non le credevano, ha fatto le valigie. Quando non le davano finanziamenti, ha investito tutti i suoi risparmi e ha fondato la sua società. È stata criticata e attaccata. Ma lei, la biologa italiana laura soucek,
immaginatevi un interruttore». come quello della luce? «esatto. il suo nome è Myc. ed è una proteina. si accende quando l’organismo deve riparare una ferita, rigenera i tessuti, e si spegne quando ha fatto il suo dovere. però a volte si rompe». e in tal caso che succede? «succede chemyccontinuaadireall’organismo che c’è una ferita da chiudere. il cancro è come una ferita che non guarisce mai». spiegata, con semplicità, da laura soucek, l’origine del tumore sembra aver perso ogni mistero e perfino il suo alone funesto: ma non è soltanto questo che ha fatto di lei uno dei ricercatori di punta europei, un ingegno italiano inopinatamente “prestato” all’istituto di oncologia dell’ospedale Vall d’hebron di Barcellona. e non è il solo motivo per cui ha vinto il premio emprendedor XXI che la caixa, la cassa di risparmio di Barcellona, riserva agli imprenditori emergenti. imprenditore, sì. perché la biologa laura soucek, nata a Velletri 45 anni fa, figlia di un giocatore di tennis fuggito dalla cecoslovacchia alla fine degli anni sessanta, ed emigrata in california poco dopo la laurea in Biologia all’università la sapienza di roma, non si limita a destreggiarsi tra microscopi e provette, seguendo cocciutamente da 20 anni una intuizione e, poi, una convinzione. lei e la sua équipe sono diventate impresarie delle loro scoperte, hanno trovato soci e finanziamenti
milionari, allargato ad altri investitori il consiglio d’ amministrazione e fissato un obiettivo: quandoci sarà il farmaco in grado di “riparare” l’interruttore, sarà un brevetto di Peptomycs.l.,spin-offbiofarmaceuticadell’istitutodioncologia del Vall d’hebron, fondata quattro anni fa da Laura Soucek e dalla biochimica Marie-eve Beaulieu con i loro risparmi.
Flashback. Come è iniziata la sua storia con Myc?
Volevo dedicare i miei studi alla ricerca sul cancro, perché direttamente o indirettamente ci tocca tutti. Cominciai a interessarmi all’ onco pro te in aMyc lavorando sulla mielocitomatosi, il tumore dei polli. mi chiedevo: semycèimp licata anche in tutti i tipi di tumore umano, perché noncercare di inibirla?
Già, perché?
Perché ha un ruolo importante anche nei tessuti umani sani; è il motore centrale di tutti i fenomeni di divisione cellulare. Si temeva di bloccare i processi di rigenerazione dei tessuti. Ma non c’erano dati sugli effetti secondari. Così, da studentessa, decisi di provare a immaginare un inibitore di Myc, una molecola che l’attaccasse. Doveva adattarsi come una chiave a una serratura. Si trattava di di-
in italia qualcosa si muove
Anche in Italia le università favoriscono la nascita di spin-off, per utilizzare
“da imprenditori” le idee venute in laboratorio. non è però semplice trovare le risorse economiche, anche se qualcosa si muove: il portale finanziamentistartup.eu, per esempio, è dedicato ai finanziamenti pubblici a supporto di start-up nel nostro Paese, per aiutare chi non vuole essere costretto a sviluppare le sue idee all’estero. La strada per dare un seguito agli studi, tuttavia, porta molti lontano dall’italia. Un altro esempio? Darwin Health, start-up statunitense con cuore e cervello italiani: il cofondatore è Andrea Califano, sbarcato da Firenze a New York dove è direttore del Genome Center alla Columbia University. Le sue intuizioni di ricercatore sono diventate brevetti e strumenti per terapie innovative anche in questo caso contro il cancro. E. M. segnare una chiave compatibile che potesse chiuderla.
Come un interruttore.
Con Manuela Helmer Citterich, dell’università di Roma Tor Vergata, abbiamo disegnato vari inibitori, fino a trovare quello che, in vitro, funzionava. Le cellule tumorali morivano subito, mentre quelle normali rallentavano soltanto il loro processo di divisione. Non abbiamo nemmeno brevettatola nostra scoperta. Per noi era più importante divulgarla, mala risposta fu tiepida: non avete ancora dimostrato, ci dicevano, che funzioni sugli animali.
E lei che cos’ha fatto a quel punto?
Le valigie. Sono partita per l’america con una borsa di studio del Cnr di un anno. Lì ho trovato tutti i mezzi necessari per lavorare sulla mia ipotesi. Sperimentai l’omomyc, l’inibitore transgenico sui topi. Avevo paura, paura di farli soffrire per niente. Ma i topi guarivano, i tumori alla pelle o ai polmoni scomparivano senza effetti secondari.
A quel punto è tornata in Europa.
Matutti midicevano che era praticamente impossibile trasformare Omomycin un farmaco industriale. Io ero convinta del contrario e così è nata Peptomyc, la nostra società, con 13 dipendenti. Ora il farmaco è testato in laboratori neutrali per escluderne la tossicità su animali più grandi, ratti, cani, scimmie. Sì, dispiace anche a me: sono un’animalista e continuo a cercare modelli alternativi. Però, se tutto andrà bene, potremo trattare i primi pazienti entro la fine del 2019 o l’inizio del 2020.
Come si concilia la ricerca con la gestione di un’impresa?
Perdendo molte ore di sonno. Gli inizi sono stati terrificanti. Ho seguito corsi serali per imprenditori, mi sono circondata di persone esperte in finanza. Per fortuna il mio istituto mi appoggia ed è diventato azionista.
E tutto questo lavoro con la vita personale?
Ogni volta che ho cambiato Paese me ne sono dovuta ricostruire un’altra. Ho perso tante relazioni importanti. Sono stata criticata, anche se mai dai miei genitori. Mio fratello soffre di una malattia genetica, ha bisogno di assistenza. Mi sono sentita giudicata come una sorella e una figlia degenere. O una cattiva fidanzata. Non ho mai sentito lo stesso biasimo nei confronti di uomini che viaggiano per la loro carriera, non ho mai sentito chiedere a un uomo perché non ha figli.
“Ogni volta che ho cambiato Paese, ho ricostruito la mia vita. Sono stata giudicata come figlia e sorella. Agli uomini non succede”