Corriere della Sera - Io Donna

In questo settembre la voce di Anite di Tegea si è rivelata capace di salutare, empatica e delicata, una stagione italiana dolorosa che chiudendos­i porta con sé l’immagine di quel ponte mozzato

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avvelenato dalla vipera, il capro mite, il fitto battere d’ali del gallo che faceva da sveglia al mattino. Il racconto in versi si sposta dal momento epico, dal massimo di luce esplosa sulla vita, verso i riflessi nascosti, i dettagli, le cose minute di quando un’esistenza finisce. Che sia quella del re persiano o di uno schiavo; di un uomo, una donna o un animale.

«Per questa cavalletta, usignolo dei campi,/e per quella cicala che vive nelle querce,/ Miró fece una tomba comune, versando lacrime/ di bimba. I suoi due compagni di gioco/ li prese e portò via Ade, difficile da persuadere». Se la poesia non può murare con le parole la strada che porta al regno dei morti, la partecipaz­ione emotiva e la cura dell’artista sapranno - suggerisce il curatore - «rendere più accettabil­e l’affidarsi al cosmo». La lancia che ha versato sangue viene consegnata “al marmoreo alto tempio d’atena” in quello che non appare un gesto rassegnato, ma un cambio di prospettiv­a imposto alle linee della forza. Anite sembra così rispondere a Simone Weil che, interpreta­ndo l’iliade, spiegò come sia possibile «amare ed essere giusti solo se si conosce l’imperio della forza e si è capaci di non rispettarl­o».

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