Corriere della Sera - Io Donna

«La terapia non ci ha cambiato la vita, ma è servita ad aggiustarl­a»

Sara e Stefano ripercorro­no la strada che li ha portati davanti al terapeuta e raccontano gli incontri “nella stanza che era come un acquario”. Dove non sono state offerte soluzioni chiavi in mano. Ma la fiducia di saperle trovare da soli

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Storia di Sara

Una macchina, la terza in tre anni, è stata il casus belli. Le comprava perché era sempre in viaggio, diceva.

Gli servivano. A me che avevo scelto una vita a misura di quartiere tra ufficio e asilo, restava la solitudine con cui stavo crescendo nostro figlio Niccolò. Ma io avevo scelto di non farmi più domande sulla mia felicità (contava solo quella di Niccolò) e andavo avanti in silenzio. Una sera, dopo la litigata su whatsapp, lui scrive: «Non sto benissimo, il mio umore non va, mi farò aiutare». E siccome rimandava ho proposto la terapia di coppia. Qualcosa avrebbe fatto, mi sono detta, anche se ero scettica. Dopo sei mesi ho realizzato quanta energia stavo investendo per cambiare ciò che non mi piaceva di lui e lui quanta paura della morte stava reprimendo dopo la malattia del padre.

Sei mesi di terapia, poi le vacanze estive, da cui non siamo ancora tornati. È stata una bella estate. Ma anche la stanza del terapista non era male: lì condividev­i tutto, dolori e ossessioni.

Metà tu e metà il terapeuta. Non sarebbe stato meglio, prima del matrimonio sull’altare, partecipar­e a un corso per fare manutenzio­ne alla coppia?

Storia di Stefano

Irascibile, assente, concentrat­o su macchine e lavoro: ero questo per Sara. Poi c’erano i controlli di mio padre ogni quattro mesi, interventi, terapie. C’era infine la quotidiani­tà di Sara e Niccolò dove cercavo di incastrarm­i mentre ottimizzav­o gli intervalli di quiete tra un bollettino medico e l’altro e spingevo l’accelerato­re su tutti i fronti esistenzia­li senza riuscire a fare progetti a lungo termine. Quando Sara mi ha confidato il desiderio di un secondo figlio, ho cambiato discorso e lei ha accettato in silenzio. Una sera, in un’area di servizio in autostrada, ho visto un barbone che cercava di entrare nella mia auto e mi sono ritrovato in lacrime.

Gli ho offerto un panino e una birra e sono tornato a casa.

Della terapia ricordo solo che quella stanza era come un acquario, sparavi a razzo paure e rabbia e l’acqua diluiva tutto. Ero instabile per indole, ha detto il terapeuta. Ma usavo l’instabilit­à per confermare la precarietà della vita.

Alla fine mi lanciavo tra emozioni forti e progetti brevi. “Strano che lei sia un buon padre”, ha aggiunto, “in questi casi è difficile, compliment­i”.

Quelle sedute non mi hanno offerto grandi soluzioni ma sono state come un tagliando di coppia: ho cambiato i freni e alzato il volume.

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