Corriere della Sera - Io Donna
Anatomia del desiderio
Una passione che sboccia negli anni Sessanta e che mai si spegne nell’arco di quarant’anni, malgrado la vita. I meandri dell’attrazione nel romanzo dello scrittore che meglio racconta la borghesia romana
“È nella natura del desiderio non poter essere soddisfatto, e la maggior parte degli uomini vive solo per soddisfarlo”, scriveva Aristotele nella Politica. Una riflessione che calza perfettamente al nuovo romanzo - il diciottesimo - di Giorgio Montefoschi, intitolato proprio Desiderio, edito da La nave di Teseo. Lo scrittore e traduttore, classe 1946 e vincitore del premio Strega con La casa del padre (1994), ci conduce anche stavolta nei meandri della sua Roma e ci fa entrare nell’entourage delle famiglie di un’abbiente borghesia che ben conosce, per raccontarci dell’amour fou fra due giovani studenti universitari, Livia e Matteo. Una passione che sboccia all’inizio degli anni Sessanta e che mai si spegne nell’arco di un quarantennio, malgrado le vicissitudini della vita, il ripetitivo scorrere della quotidianità, la routine della vita familiare e del lavoro congiurino per azzerare ogni trasgressione, piegando il cuore e il corpo. Come in un labirinto dal quale è impossibile uscire, i due protagonisti sono costretti a perdersi e a ritrovarsi, in un gioco dove fuga e inseguimento diventano il carburante di una passione che si nutre dell’attesa e cova, mai spenta, fra le ceneri. Il libro si articola in tre fasi temporali, dal 1962 al 2002. Può il desiderio resistere così a lungo?
Il desiderio non muore mai. Per sopravvivere paradossalmente si nutre della sua inarrivabilità. Quando diventa possesso e si esaurisce finisce di essere tale. La sua spinta interiore è il contrario della soddisfazione. Durante uno dei miei tanti viaggi in India, anni fa partecipai a una serata buddhista con numerosi italiani, felici di essere senza desiderio. L’ho trovato falso e ridicolo. Il desiderio è un elemento costitutivo della vita umana. Per me è legato al corpo, alla fisicità, alla bellezza. Amo l’essere e la psiche femminile, in tutte le sue manifestazioni. Chi sono Matteo e Livia?
Sono due ragazzi di condizione borghese, ma un po’ diversa. Lei è figlia di ricchi, è viziata e capricciosa, in fondo è infelice. Lui proviene dalla media borghesia ed è attratto dall’inafferrabilità di lei che lo fa soffrire, mettendo in moto il desiderio. Sullo sfondo, come in altri suoi libri, c’è Roma, descritta minuziosamente con i suoi profumi, la luce, il vento. È una sorta di coprotagonista?
Sì, assolutamente. Flaubert diceva che anche le cose hanno un’anima, e così i luoghi. Aiutano a rendere riconoscibili i personaggi e far sentire la loro realtà. Nel romanzo hanno un ruolo importante i dialoghi, molto legati alla quotidianità. Perché questa scelta?
Tanto più i dialoghi sono reali, tanto più sono meno diretti e allusivi. Nella vita si parla di qualcosa, e dietro a quelle parole c’è altro, che viene espresso solo in parte. È importante che il dialogo abbia un ritmo. Ogni frase in ogni riga deve avere il suo suono. Com’è cambiata nel tempo la borghesia romana che lei racconta?
È un po’ sonnolenta, in parte sempre uguale a se stessa, abituata a una città storica, che si rifugia con la sua bellezza in un tempo lungo. È cambiata, certo, ma non credo ci siano stati mutamenti profondi. Lei cita nel romanzo vari libri: L’isola di Arturo della Morante, Anna Karenina di Tolstoj... Sono i suoi preferiti?
Sono autori che amo molto, mi servono come le quinte della città che conosco e descrivo, e mi fanno da riverbero dei sentimenti, della situazione psicologica e di quanto sta accadendo. Per esempio, Anna Karenina è una storia di tradimento: lo utilizzo per sottolineare le pieghe del desiderio.
Maria Tatsos