Corriere della Sera - Io Donna
“IL CALCIO FEMMINILE FA BENE ALLA SOCIETÀ”DI
Sara Gama, 31 anni, difensore della Juventus e capitana della Nazionale italiana: «Non vogliamo paragonarci a Ronaldo. Ma vogliamo le stesse tutele dei calciatori», dice.
in cui milita in tutti i ruoli: attacco, fascia, terzino e difensore centrale, per poi passare all’allenamento. Vince tutto - tre scudetti, tre Coppe Italia, quattro Supercoppe italiane e sei Panchine d’oro del calcio femminile - finché nel 2017 viene chiamata ad allenare la Nazionale e a portarla agli entusiasmanti Mondiali in Francia nel 2019. Quando, improvvisamente, anche i machi più duri e puri si innamorano delle ragazze del pallone.
Nel 2015 lei aveva pubblicato un primo libro provocatorio:
(Compagnia Editoriale Aliberti). Dovendo riscriverlo oggi, cosa cambierebbe?
C’erano appena state le dichiarazioni di Belloli e Tavecchio (Felice, presidente della Lega Nazionale Dilettanti, se ne uscì con “Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche”, mentre Carlo Tavecchio, prima di diventare presidente della Figc, aveva parlato di “donne handicappate nel calcio”, ndr) e il titolo rispecchiava il linguaggio dell’italiano medio. Era un testo di cultura, antropologia, sociologia, che spiegava le origini di questa mentalità, partendo dalla storia del calcio femminile e concludendo che se le donne tra Medioevo e Rinascimento avevano trasformato i barbari in cavalieri, avrebbero anche potuto cambiare il calcio. Premonitore, direi. Il pensiero medio non è cambiato molto, ma i giovani hanno una mentalità più aperta. Perciò oggi lo impronterei più sulle prospettive, su ciò che può fare il calcio femminile.
Giocare con le tette
E cosa può fare?
«Ha potenzialità incredibili, in termini di cambiamento culturale e di una visione diversa della donna. Fa bene alle bambine, perché permette loro di pensarsi calciatrici come a qualcosa di normale, con più autostima e fiducia nelle loro possibilità. Ma può fare molto bene anche alla società: renderla più equa, più democratica, con meno pregiudizi, meno stereotipi, più aperta, equilibrata, solidale. Le calciatrici sono dilettanti: percepiscono al massimo circa 30mila euro lordi l’anno, più un rimborso spese giornaliero tra i 45 e i 61 euro, con contratti annuali.
«Credo sia necessario arrivare al professionismo se si vuole davvero dare alle ragazze la possibilità di esprimere il proprio talento. Anche per potersi confrontarsi con le colleghe straniere ad armi pari. Penso che non sia accettabile che una società civile non preveda, come vuole la Costituzione, pari diritti e pari dignità per uomini e donne. Anche nello sport. Certo: deve essere sostenibile, il professionismo ha dei costi. Che però, alla lunga, sono un investimento per guadagni futuri. Sono interventi di lungo respiro, ma è un dovere dei dirigenti guardare al futuro. Ci vuole gioco di squadra: il sistema Federazione, il Governo, un calcio maschile solidale con il calcio giovanile e femminile, e risorse che arrivano da Fifa e Uefa: le possibilità per la sostenibilità ci sono. Ma bisogna volerlo». Perché gli allenatori sono quasi sempre maschi? Le allenatrici vanno bene per i pulcini perché interpretano un ruolo materno? Ma poi, quando si fa sul serio, tocca agli uomini?
«È vero, le ragazze che allenano sono meno rispetto ai ragazzi. Ma il calcio femminile è più giovane, e di conseguenza tutto è in ritardo: meno dirigenti donne, meno allenatrici. Fino a pochi anni fa ad avere l’uefa Pro (la licenza necessaria per gestire una squadra di calcio nei più alti livelli di campionato nazionale, ndr) eravamo solo in tre, ora stiamo crescendo. Nel passato non c’era la possibilità di diventare allenatrici, ma neanche quella di pensarsi tali: va bene giocare, da giovani, ma poi c’è la famiglia, i figli... Oggi molte giocatrici prendono il patentino per allenare. Ma i dirigenti, nella maggior parte delle società, dai dilettanti alla serie A, sono uomini agée e preferiscono i maschi che, attratti dalle nuove possibilità di guadagno offerte dalle squadre femminili, stanno arrivando in massa. Molte ragazze hanno tutte le qualità per allenare piccoli, grandi e prime squadre, ma poi arriva Collovati a cui viene il voltastomaco nel sentire una donna parlare di tattica (lo disse a Quelli che il Calcio nel 2019, aggiungendo “perché la donna non capisce come un uomo, non c’è niente da fare”). Ma il cambiamento arriverà. Io ho fiducia nei giovani. Le bambine cominciano nelle squadre miste, poi però devono per forza, a 14 anni, passare a una squadra femminile. Molte la vivono come un’ingiusta imposizione.
Per me la squadra mista, dai 6 anni, è la cosa migliore: per la crescita tecnica, fisica, personale delle bambine, e per l’apertura mentale dei bambini. E fa bene anche a dirigenti e genitori. Poi però a 12-13 anni c’è uno sviluppo psicologico diverso, le bambine maturano prima e spesso sono loro che non riescono più a stare con i coetanei. Però per le ragazzine che preferiscono giocare con i maschi perché si divertono di più, la Federazione prevede una deroga fino a 16 anni. Alle
Sara Gama