Corriere della Sera - Io Donna
La Cappella Sistina della Sardegna
Il retablo della Vera Croce custodito a Benetutti è un affascinante mistero: è l’opera principale del misconosciuto Maestro di Ozieri, vera enciclopedia dell’arte europea del primo Cinquecento, che si cela in uno dei luoghi più remoti del mondo
Benetutti. Avendo perlustrato in lungo e largo la Sardegna, negli ultimi trent’anni, non riesco a spiegarmi per quale ragione non fossi mai andato a Benetutti. Oltre al nome beneaugurale e alle sue sorgenti termali di tradizione romana, Benetutti è la città che conserva il più importante retablo del misconosciuto Maestro di Ozieri. Per molti la Sardegna è una maestosa sineddoche per rappresentarne una parte, che è cresciuta fino a divorarla: la Costa Smeralda. Migliaia di amici, che ogni anno arrivano in Sardegna, si limitano a muoversi nel territorio di Olbia, tra Porto Rotondo, Arzachena, Porto Cervo e il Golfo degli aranci. Mi ricordo l’emozione e quasi l’incredulità di uno di loro, quando lo convinsi a visitare Bosa, nobilissima città tra Alghero e Oristano, sulla costa occidentale dell’isola. Una città esotica, con le case e le concerie settecentesche affacciate sulla riva sinistra del fiume Temo, in una armonia e un rigore urbanistico impensabili nella Costa Smeralda. Benetutti è anche più vicino, a meno di 100 chilometri da Porto Rotondo, nella stessa provincia di Sassari. Eppure, psicologicamente e culturalmente, è un altro mondo.
La mia percezione della Sardegna è molto variegata. Feci la prima campagna elettorale qui, e visitai ogni borgo e ogni paese, ma soprattutto feci conoscere ai sardi, attraverso la loro autorevole emittente televisiva, Videolina, alcuni dei capolavori d’arte misteriosi e misconosciuti. Solo nel Novecento gli artisti sardi uscirono dall’anonimato, ma non per essere riconosciuti in continente.
Nel ’400 e nel ’500 i più grandi di loro finirono con l’essere classificati con nomi di comodo, a identificare la loro pertinenza territoriale: Maestro di Castelsardo, Maestro di Ozieri. Grandi artisti, ma dispersi. Nelle loro opere tentavo di ritrovare le tracce della loro cultura, composita, sofisticata. I sardi ascoltavano le parole di uno straniero che raccontava loro di un Rinascimento molto composito ma indiscutibile, benché senza la fortuna di conoscere i nomi e la storia dei maestri più notevoli. Tra questi certamente il Maestro di Ozieri, che mi colpì più di ogni altro e che ha lasciato le sue opere, oltre che alla città che gli dà il nome, e alla vicina Ploaghe, a Benetutti. Nella mappa delle mie peregrinazioni, questa sosta sarebbe dovuta essere prioritaria. Accade invece ora. E lo stupore è ancora più grande. Se dovessimo immaginare una Cappella Sistina sarda, questa sarebbe nell’area presbiteriale della chiesa parrocchiale di Sant’elena a Benetutti, dove restano quattro dei nove riquadri, lampeggianti di anima e di luce, di un retablo a 9 scomparti, scomposto e venduto. Esso costituiva il ciclo di un ben definito racconto, lo stesso narrato circa un secolo prima da Piero della Francesca, con le Storie della vera croce. Qui è il nome della Santa Patrona che determina la storia. E
Sant’elena è una delle immagini visibili tra le sopravvissute del retablo. La vediamo, dominante e regale, entro un’edicola adorna di un tappeto rosso, con la corona in testa e la croce e i chiodi tra le mani. Il suo volto è pensoso, come attraversato da un dubbio, e il suo potere assoluto appare minacciato. Né spira un’aria diversa nell’episodio con il Ritrovamento delle tre croci, dove la Santa si piega in un gesto umile, mentre le tre ancelle del suo corteo si agitano smorfiose. E gli uomini osservano ingrugniti. Una danza propiziatoria appare l’episodio del miracolo della vera croce, che restituisce al morto la vita. Potente e solenne è l’episodio della Crocifissione. Non c’è in tutta la pittura del Rinascimento (o manierismo) sardo nulla di così potente ed espressivo. Senza risolvere il mistero della identità del pittore, le tavole di Benetutti sorprendono per i complessi richiami. Il pittore sardo mostra di conoscere tutti i testi del grande Rinascimento europeo: Dürer e Grünewald e Cranach, digeriti e assimilati in un sincretismo di cui non conosciamo eguale fuori di Sardegna. Nel linguaggio del Maestro di Ozieri sentiamo anche echi non superficiali di Michelangelo, di Pontormo, del Parmigianino, del Beccafumi, con un aggiornamento sulle fonti così fascinoso e seducente che potremmo dire che il retablo della vera croce di Benetutti è la Cappella Sistina della Sardegna, e impone, nel vederlo, devozione e ammirazione. Ciò che stupisce del Maestro di Ozieri è la varietà delle fonti.
Maria Vittoria Spissu, che ha studiato l’artista, osserva che «la figura dell’ebreo Giuda che strilla durante l’estrazione della Vera Croce ricorda un rustico contadino, quasi fuoriuscito dai dipinti di Brueghel o dal teatro popolare di Ruzante. Il Goceano (regione della Sardegna centro settentrionale, ndr) era in effetti una periferia nella periferia, probabilmente una condizione esistenziale può aver spinto un pittore così cosmopolita a spingersi fin laggiù. Le “inquietudini” richiamano quelle avvertite da altri pittori che lavorano in periferia nei primi decenni del Cinquecento, si pensi al caso di Lorenzo Lotto»; e ancora: «I paesaggi dipinti a Benetutti sono fiamminghi: ricordano da vicino Joachim Patinir e Jan van Scorel. Le rocce, la veduta di Gerusalemme nella vallata dipinta nella Crocifissione, le piccole Scene della Passione disposte nello sfondo, sono tutti elementi che trovano modelli e fonti di ispirazione in tanti casi fiamminghi: in Joachim Patinir, Joos van Cleve, Pieter Coecke van Aelst e in Maarten van Heemskerck. L’unico che nel Meridione sia così attento ad una simile dimensione del paesaggio è il grande Polidoro da Caravaggio, attivo anche a Napoli e Messina».
Il Maestro di Ozieri è dunque una vera enciclopedia dell’arte europea della prima metà del Cinquecento, un mistero di una varietà di culture in uno dei luoghi più remoti del mondo.