Corriere della Sera - Io Donna
I “pittori di memoria” amati da Sciascia
Tra le celebrazioni dello scrittore manca il ricordo della sua passione per gli artisti “intellettuali, riflessivi”. Come Fabrizio Clerici
esta un’occasione mancata che, in quest’anno di celebrazioni per il centenario della nascita di Leonardo Sciascia, per diverse interdizioni, non si sia arrivati a pubblicare gli scritti sull’arte di un uomo tanto libero e lucido in anni di sonno della critica, subalterna alle mode e al mercato. Dobbiamo gratitudine a Sciascia per averci fatto vedere con occhi nuovi Alberto Savinio e per aver accompagnato Piero Guccione nella luce delle ombre di Sicilia, per aver dialogato, sui testi di Raymond Roussell e sulle lettere di Aldo Moro, con Fabrizio Clerici, l’artista forse più amato e riscattato dal lungo silenzio della critica. Ho tentato invano, con le figlie, e con l’editore Adelphi, di far pubblicare gli interventi estemporanei ma essenziali di Sciascia sui pittori, prevalentemente suoi contemporanei. È una decisione che mutila l’opera di Sciascia, e priva i lettori di limpide interpretazioni. Gruppi, tendenze, mode non influenzano il giudizio di Sciascia, che è libero, autonomo, senza preconcetti. Lo scrittore avverte: «Mi piacciono i pittori che nel loro immediato rapporto con la realtà, le forme, i colori, la luce, sottendono la ricerca di una mediazione intellettuale, culturale, letteraria. I pittori di memoria. I pittori riflessivi. I pittori speculativi. Un sistema di conoscenza che va dalla realtà alla surrealtà, dal fisico al metafisico».
Determinante è il giudizio su personalità incomprensibilmente evitate dai critici come Fabrizio Clerici, maestro visionario di grande tradizione e di cultura surrealista, di cui Sciascia aveva capito la complessità della ispirazione colta, a partire dal suo Sonno romano. Quest’opera capitale della pittura del secondo Novecento, concepita da Clerici nel 1955, è l’opera di una vita, nel rapporto con la città d’adozione, in una stratificazione di esperienza e di conoscenza, dal mondo antico al mondo moderno, dalla civiltà romana all’età barocca. Lo dice lo stesso Clerici: «Siccome la mia pittura è sempre un ricordo, uno dei miei quadri più significativi è il Sonno romano, insieme raffigurazione classica e religiosa che si sposano perfettamente e ambiguamente fra di loro in uno “spazio” da me inventato, che è una specie di luogo teatrale, secondo le altimetrie romane, di città a strati; questo sonno è più sonno di morte perché le figure sono prese in estasi, come il “Fauno Barberini” di un sonno ubriaco; ma altre figure sono di morte, la “Santa Cecilia” del Maderno, la “Santa Martina” con la testa decapitata».
Un dipinto così immerso dentro di lui che, a trent’anni di distanza, Clerici ne ha voluto dipingere una versione tre volte più grande, destinata alla Galleria d’arte Nazionale di Roma, «una misura apparentemente abnorme, ma l’unica capace di
Rincidere nella psicologia e nella emotività distratta del “fruitore” contemporaneo» come scrive Maurizio Marini, storico dell’arte studioso di Caravaggio, non critico militante. Così la bella e grande impresa di Clerici segnala la fine e l’attualità di un’epoca, che il pittore vede con gli occhi dell’architetto e dell’archeologo. La predilezione di Sciascia per artisti e grandi illustratori, come Bruno Caruso e Fabrizio Clerici, è ineluttabile nella sua condizione di letterato puro, di critico non militante. Sciascia, per destino e condizione spirituale, “sta più vicino ai libri che alle pitture”. L’attenzione responsabile ma rapsodica di uno scrittore per un artista è tutta nella ricerca di una «chiave per leggere la pittura». Ed è per me motivo di orgoglio che la rivalutazione di Clerici sia partita da Ferrara, anche con il mio contributo.
Sono passati quasi quarant’anni da quella bella giornata di autunno del 1983 in cui, nella casa di Ro, dove sono vissuti i miei genitori e dove oggi è ambientato il film di Pupi Avati Lei mi parla ancora, che racconta la loro lunga vita amorosa, arrivarono in frotte gli amici e gli estimatori di Fabrizio Clerici dopo l’inaugurazione della mostra a Palazzo dei Diamanti per i settant’anni dell’artista. Il curatore era Federico Zeri: la sua autorevolezza come storico dell’arte antica era la miglior garanzia per un pittore colto, del quale Jean Cocteau, lontano da pregiudizi e preclusioni della critica nostrana, aveva scritto: «Fabrizio Clerici non è forse uno dei prìncipi di questo realismo irreale che sarà il segno distintivo del ventesimo secolo?». Eppure per molti la mostra di Ferrara fu una rivelazione. Non per gli “happy few” che convennero a casa, uomini di gusto internazionale e sofisticato. C’erano Alvar Gonzales Palacios e Mario Tazzoli, Enrico d’assia e Umberto Tirelli, Indro Montanelli e Colette Rosselli, Federico Fellini e Giulietta Masina, Antonello Trombadori e Carlo Guarienti, Bice Brichetto ed Enrico Medioli, Giorgio Soavi e Giorgio Zampa, Marina Cicogna e Mario Lanfranchi, Pasquale Chessa e Piero Buscaroli; Maurizio Fagiolo Dell’arca e Tiziano Forni, il coraggioso gallerista di Clerici; e, naturalmente dominante, Federico Zeri. Una giornata indimenticabile.
Ma fra tutte era preziosa proprio la presenza di Leonardo Sciascia, perché tutti riconoscevano in lui il testimone autorevole di una posizione critica indipendente che ci consentiva di riconoscere un protagonista della pittura del Novecento. In attesa che gli incomprensibili veti cadano, Giuseppe Cipolla ha pubblicato il libro Ai pochi felici. Leonardo Sciascia e le Arti visive. Un caleidoscopio critico (edizioni Caracol), con introduzione di Gianni Carlo Sciolla, dove la ricostruzione delle scelte di Sciascia si nutre di citazioni e di parafrasi di testi introvabili.
Fabrizio Clerici, Sonno romano (1955).