Corriere della Sera - Io Donna

Se una madre abbandona il suo bambino viene giudicata male dalla società. Anche se a volte è l’unica scelta possibile, per il bene di tutti. In chi resta solo, e non può capire, si apre una ferita profonda. Ma una riconcilia­zione è possibile

- Di Gaia Giorgetti

Può accadere che una madre non se la senta più di sacrificar­si tanto e decida, tra sensi di colpa e l’unanime riprovazio­ne sociale, di mollare tutto, anche i suoi bambini. Gli uomini che abbandonan­o figli e famiglia sono sempre esistiti e non hanno mai fatto troppo scandalo, ma quando un passo simile lo compie una donna, viene giudicata a vita.

È raro che le madri lascino il nido, ma accade: dopo la separazion­e, su quasi 41mila affidi condivisi, 379 sono i bambini che vivono in esclusiva con il papà, mentre 2.700 stanno solo con le loro madri. La realtà però è più vasta e complessa della fotografia Istat: chi sono queste donne che, dopo aver messo su famiglia sentono il peso di quel ruolo come insopporta­bile, un ostacolo alla loro realizzazi­one e, magari quando i bambini stanno crescendo, fanno la scelta più dura della vita e vanno a cercare la loro strada lontano da una famiglia fonte di frustrazio­ne e infelicità? Meritano tanta riprovazio­ne, come accade normalment­e, oppure il ripensamen­to ha un perché, che va capito e considerat­o come un esito possibile della maternità?

Il tema coinvolge il ruolo del genere femminile nella nostra società e le ferite nei figli che soffrono l’abbandono da parte della madre. Un’esperienza vissuta, ad esempio, da Massimo Ammanniti, uno dei rappresent­anti più illustri della psicoanali­si italiana e grande studioso dell’infanzia e dell’adolescenz­a. Qualche mese fa, all’alba dei suoi ottant’anni si

è confessato sul Corriere della Sera, in un’intervista toccante dove svela di essere stato lasciato dalla madre quando era ragazzino, di averne sofferto tantissimo e di averla odiata, per perdonarla poi, da grande. Racconta: «Era una donna curiosa e intelligen­te, che si sposò a soli 18 anni in virtù di un matrimonio organizzat­o tra famiglie. Così entrò in una casa borghese, con un marito, mio padre, che era un pediatra bravo e rigoroso, ma di cultura tradiziona­lista. Diciamo pure fascista». Per quella donna, di sinistra e di ampie vedute, quel tipo di orizzonte si mostrò alla fine insopporta­bile. Lei voleva altro e se ne andò, anche se erano gli anni Cinquanta e l’abbandono del tetto coniugale non passava inosservat­o: qualche marito poteva anche permetters­elo, ma una moglie proprio no. Eppure, fu la scelta giusta: «Dopo la separazion­e mia madre fondò addirittur­a una sua impresa di costruzion­i, organizzò un coltissimo salotto culturale che finì per accogliere persone come Pertini e Terracini, e trovò se stessa grazie alla distanza da noi, da me».

Resistono gli stereotipi sulla maternità

Quella madre ha inseguito un destino diverso, altre fuggono sempliceme­nte dall’infelicità. Francesco Sarcina, chitarrist­a e frontman delle Vibrazioni, nell’autobiogra­fia Nel mezzo, pubblicata da Sperling & Kupfer, ricorda sua madre infelice, sola e disperata che a un certo punto non ce l’ha fatta più. «È esplosa, sparita», scrive. Mollando il figliolett­o solo con il padre: «Ero troppo giovane per accettarlo, l’ho odiata». Ma anche quel bambino, crescendo, ha perdonato: «Dopo tanti anni ci siamo ritrovati, ho capito come deve essersi sentita e l’ho compresa».

La maternità deve renderci felici a tutti i costi? È un’esperienza con le sue ombre e le sue ambivalenz­e, che non escludono il ripensamen­to. Invece, viene considerat­a un destino biologico, un cammino fatto di sacrificio e di amore incondizio­nato: «Il conflitto si gioca tutto all’interno dell’animo femminile, dove convivono contraddiz­ioni e sensi di colpa, perché diventare madri, in una società che considera la maternità la realizzazi­one autentica del femminile, l’unico scopo vero di un’esistenza votata ad allevare figli, chiude le donne in una gabbia, per molte fatta solo di sacrifici e di rinunce» dice l’arteterape­uta Marilde Trinchero, che qualche anno fa ha scritto La solitudine delle madri (Magi editore). «Ai primi nel Novecento, Sibilla Aleramo aveva già fatto luce sull’ingiustizi­a cui erano condannate le donne alle quali non era concesso neppure di mettere in discussion­e il peso che la maternità comporta: immolarsi per i propri figli, rinunciand­o a tutto. Cent’anni dopo», continua l’esperta, «l’aspettativ­a culturale promuove ancora il medesimo stereotipo, e ci ostiniamo a ignorare il disagio che invece esiste ed è sempre più visibile. Oggi fare un figlio spesso significa perdere lavoro e autonomia: chi sente questo limite come un peso insopporta­bile, non è una donna cattiva, va compresa, non condannata».

Comprender­e, non giudicare

Quali possono essere i motivi che spingono una madre a rinunciare ai suoi bambini? Tanti, diversi, drammatici. C’è chi partorisce ma non desidera o non può accudire il bambino, e la legge italiana (Dpr 396/2000, art. 30, comma 2) le consente di non riconoscer­lo aprendo la strada all’adozione. «Chi è consapevol­e di non essere in grado di prendersi cura del neonato ed è disposta a separarsen­e manifesta una sua forma di amore, mentre ingiustame­nte viene considerat­a spietata ed egoista», commenta Trinchero.

C’è tanta sofferenza nella decisione di lasciare un bimbo appena partorito in ospedale per darlo in affido ad altri genitori, un travaglio che possiamo comprender­e leggendo una delle tante storie raccolte nel libro appena uscito per Laterza, Piccoli piccoli. Storie di neonati nell’italia di oggi, scritto dal neonatolog­o Mario De Curtis e dalla psicologa Sarah Gangi. Una serie di racconti di vita vissuta in reparto, dove è nato anche il piccolo Dario, paffuto e in buona salute, ma abbandonat­o dalla mamma perché figlio di un adulterio: quella donna in lacrime non si è data altra scelta se non salvare la sua famiglia, dando al bimbo non voluto un destino lontano da lei.

A volte una mamma ci prova in tutti i modi, ma poi le circostanz­e della vita la portano a capire che il futuro è altrove. La maternità può diventare una voragine, andarsene diventa una questione di vita o di morte: seguire se stesse o condannars­i all’infelicità? «L’errore che facciamo, nel giudicarle», spiega Trinchero, «è pensare che queste donne non amino i loro figli. Non è così, perché se non ci sentiamo in grado di essere buone madri, è proprio per il bene dei figli che preferiamo affidarli a chi può occuparsen­e meglio di noi».

Non si perdona la ricerca della felicità

Nel 2017 è uscito un libro che ha suscitato un gran dibattito, perché sollevava un quesito molto delicato: se tornaste indietro deciderest­e ancora di diventare madri? Chiedeva la sociologa israeliana Orna Donath nel saggio Regretting motherhood (Pentirsi di essere madri. Storie di donne che tornerebbe­ro indietro. Sociologia di un tabù, Bollati Boringhier­i). «Lo scandalo che ha suscitato questo libro dimostra che ha toccato una verità che non vogliamo accettare e non osiamo dire», conclude Trinchero. Le 23 testimonia­nze di Orna combattono non tanto uno stereotipo, quanto un dogma: il presuppost­o che l’istinto materno sia innato e che una donna è madre per natura.

«La madre che si pente raccoglie il diniego di tutti, perché tutti abbiamo in testa l’idea che una donna si realizzi solo facendo figli», spiega la filosofa Francesca Rigotti, autrice con Duccio Demetrio di Senza figli. Una condizione umana (Raffaello Cortina). «È curioso che la storia sia piena di uomini che mollano la famiglia, come fece addirittur­a Sant’agostino, uno dei padri della Chiesa, o un poeta di chiara grandezza co

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