Corriere della Sera - Io Donna

“Vedo un netto scarto tra l’esperienza materna di chi fa un figlio per essere felice e di chi è tanto felice da fare un figlio”

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Stefania Andreoli

essere un dato numerico, se la donna in questione gode di aiuti e di salute psichica - a venti, trenta e quarant’anni. Piuttosto, per la mia esperienza, la variabile che fa la differenza è la risoluzion­e dei conti con la propria vita, prima di crearne un’altra. Vedo un netto scarto tra l’esperienza materna di chi fa un figlio per essere felice e chi invece è tanto felice da decidere di avere anche un bambino. Una madre a cui ispirarsi che ha vissuto la propria vita rispondend­o “lo faccio per me”? Me stessa. E la troverei una bellissima risposta, chiunque la desse. Se davvero lo faccio per me, è a me che rispondo. Non è egoismo - di cui comunque nel libro faccio l’elogio -: si chiamano responsabi­lità e autorizzaz­ione di sé. Roba da adulti».

Ognuno contiene moltitudin­i

«Ci sono fior di studi internazio­nali che sottolinea­no come la maternità abbia uno statuto proprio, che nulla ha a che fare con la mistica del sacrificio. Eppure capita ancora oggi che siano considerat­e ricerche “di parte”, contributi “viziati” da un preconcett­o femminista. Niente di più miope. C’è un’unica cosa fondamenta­le: siamo soggetti. Persone. Lo è la madre, che è più di quello che esprime in quel ruolo. Lo è il figlio, che trascende anche lui quanto esprime in quel legame. Sembra ovvio, ma non lo è. E non c’è altro da sapere che abbia maggior valore» conclude.

Bilanci difficili

Niente è scontato quando si riflette sul tema che sembra il più sviscerato di sempre. Lo ricordano, ancora, la seconda stagione della serie messicana Di mamma ce n’è solo... due appena sbarcata su Netflix, che racconta della soluzione escogitata da due donne per correggere lo scambio delle loro figlie in culla. E la ristampa dell’esordio di Donatella Di Pietranton­io, Mia madre è un fiume (Einaudi). Diverse nel tono, offrono entrambe un’occasione per non dimenticar­e che per affrontare il tema serve uno sguardo plurale: biologico o fatto di compromess­i, che importa. A tenere in vita un legame, suggerisce la scrittrice, a volte basta anche solo la memoria. «Le donne della mia generazion­e hanno conosciuto solo il modello della madre sacrifical­e. Una donna se non era madre non era donna e quando lo diventava doveva sacrificar­e tutto, in sostanza. Ribaltando­lo, e cercando di essere soprattutt­o altro e non solo madri, abbiamo però lasciato insoluta una questione: quella appunto del sacrificio» racconta Di Pietranton­io, 60 anni, scrittrice e medico dentista. «Abbiamo voluto studiare lavorare ma abbiamo voluto anche i figli. Ho vissuto la mia maternità in modo ambivalent­e e con grandi sensi di colpa. Vivevo in un ambiente di provincia dove, soprattutt­o vent’anni fa, dentro le mura domestiche si sentiva molto il peso della cultura patriarcal­e. Mi sono sempre barcamenat­a tra il voler essere una buona madre e il restare viva, ovvero me stessa. Non è stato facile ma penso di avercela fatta. L’istinto materno? Credo riguardi un livello più basico nelle relazioni, poi intervengo­no i miti culturali a orientarci. Per fortuna le nuove generazion­i fanno scelte più consapevol­i, compresa quella del rifiuto. In questo senso vorrei citare tre scrittrici per la visione moderna che viene fuori dai loro libri in cui la maternità non è annullamen­to di sé. Sono Sheila Heti, Guadalupe Nettel e Yasmina Barrera» argomenta Di Pietranton­io, madre di un ragazzo che oggi ha 23 anni. A distanza di undici anni dal suo esordio il libro sembra un’altra creatura. Come accade con i figli. «È la ragione per cui ho cambiato radicalmen­te la copertina. C’è adesso la figlia in foto, che è la voce narrante, e che rappresent­a tutte quelle figlie che un giorno saranno madri. Mi auguro che la società, qui in Italia, le sostenga più di quanto abbia fatto con noi».

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