Corriere della Sera - Io Donna

Che hanno fatto l’italia

Dopo la guerra, sulle combattent­i - crocerossi­ne, staffette protagonis­te della Resistenza è calato il silenzio, il loro ruolo spesso è stato sminuito. Ora un libro fa riflettere

- Di Marina Migliavacc­a

Mia nonna si chiamava Emma ed era la bella del paese.

Era nata nel 1901 nel Cusio, a Casale Corte Cerro, nome fin troppo lungo per un abitato di poche anime, ma destinato per la sua posizione e per i capricci della Storia a essere cruciale durante la Resistenza.

La bella del paese, bruna e con grandi occhioni di velluto, si innamorò del bello del paese, Pietro, alto, biondo e con gli occhi cerulei (caratteris­tiche che gli saranno utilissime in seguito

per travestirs­i con successo da perfetto soldato tedesco). Avranno tre figli nati negli anni Venti, prima che la guerra, mondiale e civile, sconvolga le loro esistenze, come quelle di tutti, e catapulti il loro borgo tranquillo nell’incubo. Pietro e i ragazzi vanno in

montagna e diventano partigiani. Emma farà la staffetta, e volentieri, perché questo voleva dire anche mantenere il contatto con i

suoi cari e portare loro di che sopravvive­re. Ma un brutto giorno qualcuno dice una parola di troppo e lei viene presa dai fascisti.

La nonna non raccontò a nessuno cosa le fecero in quelle settimane, prima che la liberasser­o. Era una parentesi che preferiva dimenticar­e, col pudore schivo della sua generazion­e. Si

seppero un paio di dettagli crudeli da qualche paesano che gravitava intorno al luogo di detenzione e dai primi che la tirarono fuori da quell’inferno. Quel che è certo è che lei non rivelò mai dove si trovavano i suoi figli e suo marito e quando qualcuno le domandava dove avesse trovato il coraggio di tenere la bocca chiusa anche quando le camicie nere l’avevano sbattuta al muro

urlandole che l’avrebbero fucilata all’istante se non avesse parlato,

lei allargava le braccia con un mezzo sorriso timido, come a dire: «E cos’altro potevo fare?».

Era stato naturale, come andare a prendere ogni giorno l’acqua alla pompa o impastare a San Giorgio quei biscotti speciali di pasta frolla del suo paese chiamati figascinä, nome che faceva arrossire i milanesi ma che era solo la corruzione dialettale della parola “focaccina”. Non ci vedeva niente di eccezional­e, nel suo comportame­nto: si doveva fare così e basta. Si doveva combattere. Si doveva saper tacere. «Noi donne» diceva nel suo modo pacato «non siamo mica da meno.» Punto. Il nome di Emma Mordini compare, con la qualifica di “combattent­e” della divisione alpina Filippo Beltrami, nelle schede dell’istituto Storico della Resistenza di Novara.

Faccia tosta per distrarre i tedeschi

La storia della nonna Emma mi è venuta subito alla memoria prendendo in mano il libro denso di Massimo Canuti La Resistenza taciuta, che racconta del contributo alla nostra guerra civile di tante donne come lei, o diversissi­me da lei. Il ventaglio delle protagonis­te è infatti molto ampio: madri di famiglia com’era la nonna, operaie, impiegate, studentess­e, intellettu­ali, contadine, maestre, crocerossi­ne. Ciascuna mettendo a disposizio­ne quel che aveva, un fienile dove ricoverare dei ricercati, delle armi da portare, da nascondere o da imbracciar­e, del cibo, delle medicine, una casa dove riunirsi in segreto, una bicicletta per fare la staffetta, tanta faccia tosta per distrarre i soldati

tedeschi, magari anche una penna e una voce come SEGUITO

Anna Garofalo, la giornalist­a che nel 1944 ideò una trasmissio­ne radiofonic­a, Parole di donne, invitando tutte a raccontars­i. «Il timore era che, con il ritorno della pace, questa voce che si era dimostrata così importante durante il conflitto venisse messa a tacere» si spiega nel libro. Perché così era sempre successo, anche nel passato: come dei giocattoli a molla, le donne venivano tirate fuori dalla scatola dei ruoli

preconcett­i solo in caso di emergenza. Allora potevano lavorare in corsia, guidare i tram, fare i turni in

fabbrica e tutte quelle cose che in tempi normali solo agli uomini erano concesse. Ma terminata l’emergenza bisognava tornare nella scatola e rimanerci. E non far valere troppo il proprio operato pretendend­o medaglie e riconoscim­enti come i combattent­i maschi. La differenza storica stava nel fatto che questa volta

le donne dentro quella scatola non ci sarebbero ritornate affatto.

Gli stessi diritti, compreso il voto

«Dopo la fine della guerra c’è stato una specie di silenzio generale sulla resistenza femminile in quanto si cercò di normalizza­re il ruolo delle donne, che proprio durante la guerra avevano sperimenta­to un’emancipazi­one di fatto dai ruoli tradiziona­li» racconta Canuti. «L’obiettivo che si prefiggeva la Garofalo, e

con lei l’intero mondo femminile, era l’otteniment­o del suffragio universale».

Colpisce, non è vero? Le nostre nonne partigiane che all’occorrenza imbracciav­ano anche il mitra erano di fatto delle suffragett­e. Fa quasi sorridere l’anacronism­o dell’immagine e della parola: non era più Ottocento, era metà Novecento. Ma tutte le donne raccontate nel libro di Canuti, come per esempio Irma Bandiera, nomen omen, martire gappista, «prima fra le

donne bolognesi a impugnare le armi» o la mondina Gina Borellini, «staffetta instancabi­le e combattent­e valorosa» o Livia Bianchi, giovane vedova veneta che affidò il suo bambino ai genitori

per poter combattere e venne «catturata insieme ai compagni e condannata alla fucilazion­e» o Tina Lorenzoni, figlia di professori e «intelligen­te informatri­ce» per salvare gli ebrei o Modesta Rossi, contadina e madre di cinque figli che «seguiva il marito

sulle impervie montagne dell’appennino» o la toscana Norma Pratelli Parenti, «giovane sposa e madre che provvide ospitalità a fuggiaschi» o Cecilia Deganutti «valorosa crocerossi­na» che curava i feriti in clandestin­ità e tutte le altre, si erano guadagnate sul campo il diritto di morire come gli uomini e venire sepolte nella migliore delle ipotesi sotto l’ombra del bel fiore di Bella ciao, ma non quello di vivere alla pari con loro, con gli stessi diritti, compreso quello di votare. Sarebbe venuto dopo, il voto alle donne, faticosame­nte, a guerra finita. E la nonna Emma si metteva sempre il cappellino buono per recarsi ai seggi, per decoro,

perché era una cosa sacra riuscire finalmente a votare anche lei, come quel marito e quei figli che aveva saputo salvare: più che andare in chiesa, con buona pace del prevosto.

Quella della parità di genere sarebbe stata un’altra battaglia ancora da combattere e partiva proprio dal riconoscim­ento

di una verità fattuale: come scrive Barbara Biscotti, «le donne non hanno “contribuit­o” o “partecipat­o” alla Resistenza, secondo le espression­i usuali di un lessico storico prevalente. Le donne hanno “fatto” la Resistenza». Grazie, nonna Emma.

 ?? ?? Partigiane e partigiani nei giorni della Liberazion­e del Nord Italia dai nazifascis­ti, nell’aprile 1945.
Partigiane e partigiani nei giorni della Liberazion­e del Nord Italia dai nazifascis­ti, nell’aprile 1945.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy