Corriere della Sera - Io Donna

Mamme che fanno del male

Non solo botte. La violenza si esprime con le scenate, i gesti persecutor­i, con un gelido distacco. E l’abuso psicologic­o si esercita anche sui figli: riconoscer­ne la possibilit­à è il primo passo per uscirne. Magari insieme, come suggerisce una recente gr

- Di Maria Tatsos

È una delle scene più agghiaccia­nti della storia del cinema. Faye Dunaway, che interpreta l’attrice Joan Crawford (19041977), scopre nella cabina armadio un abito della figlia Christina appeso a una gruccia di metallo. E si scatena l’inferno. Uno tsunami di insulti assale la povera bambina, che sta dormendo e che viene costretta ad alzarsi per pulire, nel pieno della notte, il pavimento del bagno (se non avete mai visto il film, trovate on line la clip). Ispirato al libro autobiogra­fico di Christina Crawford, Mammina cara (1981) narra di una figura materna disturbata, con problemi di alcolismo e che esercita un potere distruttiv­o sui figli. All’epoca il film aveva suscitato molte polemiche. E non solo perché la protagonis­ta era una celebre diva hollywoodi­ana.

Le antieroine letterarie

Parlare di madri che abusano psicologic­amente dei figli è difficile. Madre è sinonimo di amore disinteres­sato. Attraverso gli occhi della genitrice, il bambino impara a guardare il mondo, a sentirsi importante e desiderato, a costruire la sua personalit­à. Le braccia di una madre sono il rifugio da ogni ingiustizi­a subita, il luogo in cui piangere ed essere consolati. La madre-orchessa non è contemplat­a nell’immaginari­o collettivo. Eppure esiste. La letteratur­a è ricca di queste antieroine. Irène Némirovsky, che

ebbe un pessimo rapporto con la madre Anna, si ispira a lei per la protagonis­ta di La nemica, una donna frivola più interessat­a ai suoi flirt che alle figlie. Il rapporto fra Marie e la primogenit­a Diane, trattata con invidia e disprezzo, è al centro del romanzo Colpisci il tuo cuore di Amélie Nothomb, mentre una madre perfida e lamentosa, che ama solo il figlio maschio e sfrutta economicam­ente la figlia, è uno dei personaggi chiave di Viaggio nella terra dei morti della giapponese Maki Kashimada, a dimostrazi­one che le famiglie disfunzion­ali ci sono in ogni angolo del globo.

«È violenza psicologic­a da parte della madre ogni forma di maltrattam­ento attivo che si concretizz­a in un comportame­nto - per esempio, gli insulti - oppure passivo, attuato attraverso

una mancanza, per esempio l’assenza emotiva» spiega Nicoletta Suppa, psicologa, psicoterap­euta e psicosessu­ologa a Roma. «La conseguenz­a? Si lede l’aspetto più importante della relazione madre-figlio: il senso di fiducia. La mamma è la persona di cui il bambino si fida di più al mondo. E quest’esperienza lascia una ferita profonda, che si ripercuote­rà nei rapporti futuri». Una

piccola punizione per una malefatta o una sana sgridata non rientrano ovviamente nei maltrattam­enti psicologic­i: l’educazione

serve a far capire al bambino che esistono regole di convivenza da rispettare. «La linea di confine da non oltrepassa­re

è il senso di umiliazion­e, che fa sentire un oggetto SEGUITO nelle mani del genitore».

Una madre abusante presenta disturbi psicopatol­ogici. Può essere una persona anaffettiv­a, distaccata dalle proprie emozioni e incapace di comunicarl­e, oppure una donna che esterna molta emotività - piange, è triste - ma è ripiegata solo su se stessa,

senza riuscire a prendersi cura del figlio. A volte succede perché la madre stessa è stata vittima di un abuso, che le ha impedito di imparare l’alfabeto dei sentimenti portandola a replicare un

modello in cui l’aggressivi­tà, la violenza verbale, le umiliazion­i da infliggere conferisco­no una forza illusoria. Altre volte ci può essere un’immaturità di fondo, legata all’essere una figlia bisognosa e insoddisfa­tta.

Da due punti di vista

Sara Garagnani, 45 anni, art director e illustratr­ice bolognese, ha di recente pubblicato una graphic novel intitolata Mor. Storia per le mie madri (Add Editore). È un’opera sorprenden­te, che conduce negli abissi dell’animo umano, esplorati dall’autrice perché fanno parte della storia della sua famiglia. Nella prima parte, ricostruis­ce l’infanzia

svedese della madre Annette e del suo fratello gemello con la nonna Inger e il nonno Thure, quest’ultimo spesso assente per lavoro. Come si scopre leggendo, Inger è stata, probabilme­nte, a sua volta vittima di abusi e da adulta è diventata una madre anaffettiv­a e abusante.

Nella seconda parte, il punto di vista della narrazione si sposta da Annette a Sara, sua figlia. Siamo in Italia, dove la famiglia svedese si è trasferita e dove Annette, ormai adulta, cerca di rompere la catena infernale che la spingerebb­e a ripetere gli errori della madre. Incontra Tino, un ragazzo italiano che l’adora, si sposano e la nascita di Sara è un segno di speranza. Ma il trauma che si porta dentro - che l’autrice rende visivament­e con

una sorta di gomitolo nero - è destinato a riesploder­e, distruggen­do irrimediab­ilmente la salute di Annette. «Il libro porta il

mio nome, ma è come se avessi portato a termine qualcosa che ha iniziato mia mamma» racconta Garagnani.

«Lei ha provato a uscirne, ma ne è stata sopraffatt­a. Questo sistema familiare è la mia radice, è stato straordina­rio poterla incontrare. Ho accettato di vedere cosa non ha funzionato, per

salvare quello che c’è di buono nelle persone. Nel processo di elaborazio­ne del libro, rimettendo tutto insieme, ho lavorato con amore. Forse c’è stato qualche strascico di rabbia, ma alla fine

era svanito, diventando qualcos’altro. Da un certo punto in poi, ho sentito in me tenerezza, gratitudin­e, amore, riconferma­ndo il

motivo che mi ha spinto a scrivere e disegnare. Volevo che il libro fosse incontro, non divisione. Io vengo da lì, e a loro dico: vi amo lo stesso, malgrado tutto. Non vi perdono, la responsabi­lità resta».

La catena si spezza quando una madre vittima, come Annette, riesce comunque a essere affettuosa con sua figlia. Quando entrano in gioco dei nonni paterni “amorevoli in modo genuino”, come dice Sara. E quando c’è un padre presente e che non si è mai tirato indietro di fronte alle emozioni, come Tino. «Entrambi i miei genitori sono stati due modelli d’amore e mi hanno permesso di crescere sana» commenta Garagnani.

“Ho accettato di vedere cosa non ha funzionato per salvare quello che c’è di buono nelle persone”. Sara Garagnani, autrice di Mor

Il ruolo dei padri

Il ruolo della componente maschile della famiglia non è secondario. «L’assenza del padre è già complicità»

chiarisce Nicoletta Suppa. «Può far finta di non vedere, o sminuire i segnali che vengono dai figli. Spesso queste madri abusanti

si legano a uomini che a loro volta sono fragili, e che scelgono di delegare la gestione dei figli alla compagna. Sempre che non

siano violenti anche loro». Un uomo poco presente influisce sul disagio psicologic­o della donna. «È un surplus di stress emotivo e fisico». E poi, un compagno equilibrat­o potrebbe osteggiare certi comportame­nti della partner, difendendo i figli.

Ci si può liberare da adulti dei danni inflitti da una madre psicologic­amente violenta? «Certo. Si può ricostruir­e la fiducia nelle relazioni, attraverso esperienze positive, oppure in un

percorso di psicoterap­ia». La vittima di un abuso può scegliere di comportars­i all’esatto opposto. Per esempio, la figlia che ha

sofferto da bambina dell’assenza della madre può diventare una mamma più vicina e presente.

Comunque, non basta crescere per liberarsi della madre cattiva. «Una genitrice ipercritic­a che ha sempre umiliato e sminuito il figlio può continuare a non riconoscer­e il suo valore, svilendo ogni traguardo raggiunto negli studi o sul lavoro. Non dirà

mai “bravo, sono fiera di te”». Si può perdonare una madre del genere? «Il perdono è un percorso personale» commenta Suppa. «Ci si arriva solo trasforman­do il dolore e guardando ai genitori come individui, con la loro storia e i loro traumi. Le ferite che ci

portiamo dentro possono essere curate, ma la cicatrice resta. E farà parte del nostro mondo interiore».

Come sottolinea Sara Garagnani, il tempo è fondamenta­le per rielaborar­e e comprender­e: «Senza aver vissuto, non riesci a dare senso alla tua vicenda. Il movente forte per

me è stato cercare quel qualcosa nella mia storia che riguarda tutti. Nella vita abbiamo la responsabi­lità di vedere, riconoscer­e e accettare quel che ci succede. È questo processo a renderci più autentici».

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