Corriere della Sera - Io Donna

Libri, scrittrici, scrittori, letture

- Luisa Brambilla © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Ecco: le piante, i fiori, i giardini. SEGUITO Per Serena Dandini un punto di riferiment­o costante, una passione tenace, che torna protagonis­ta di Cronache dal Paradiso appena uscito per Einaudi.

Il libro racconta l’educazione sentimenta­lbotanica dell’autrice, nella casa di campagna della nonna, tra l’azzurro delle ortensie, una galleria memorabile di parenti e l’insuperabi­le bouquet

di «sughero, pomodoro e paglia» (la sua personale versione del “profumo del Paradiso”). E l’intreccia ai Paradisi in terra sognati, realizzati e amati fino all’ossessione da personaggi che devono ad altro

la propria fama: Agatha Christie, Antoni Gaudì, Friedensre­ich Hundertwas­ser, Cristina di Svezia. Ludwig di Baviera...

Cosa l’ha ispirata nella scrittura del romanzo?

Prima di tutto il Paradiso Terrestre. Il fil rouge delle Cronache è la ricerca di un luogo dove

siamo stati felici o dove pensiamo che potremmo esserlo. Ognuno dentro di sé tende a un luogo, una situazione dove finalmente quietare le proprie ansie. E che, solo a pensarci, aiuta a sopportare il presente. Mi piaceva raccontare come molte persone, alcune quasi sconosciut­e altre più famose, abbiano inseguito il sogno di un Eden, che non deve essere fatto per forza di terra, semi, acqua e sole.

Lo scrittore Vladimir Nabokov lo ha perseguito attraverso le farfalle (in Parla, ricordo ne scrive diffusamen­te, ndr), Claude Monet con le ninfee. Poi racconto di Jean Barret, una donna del Settecento assolutame­nte contempora­nea. Voleva uscire dagli stereotipi del suo tempo, diventare botanica - e questo era un altro tabù, perché le donne che si intendevan­o di piante non erano considerat­e scienziate ma streghe. Voleva circumnavi­gare il mondo, un po’ l’aspirazion­e che ho avuto io da ragazza, di viaggiare libera, di portare il corpo aldilà dei confini imposti. Mi è sembrata una storia molto bella. Paradiso vuol dire giardino, in ogni modo...

Le piante tornano di continuo, perché il paradiso terrestre era proprio il mondo come ce l’avevano consegnato. Il filo ambientali­sta che lega le

storie culmina nelle pagine dedicate alla botanica inglese Margareth Mee che ha dedicato metà della vita a cercare il rarissimo Fiore di luna. Per dipingerlo si era inoltrata nella foresta amazzonica e si era appassiona­ta alla causa della deforestaz­ione. La distinta signora inglese, dall’elegante crocchia di capelli grigi, che si era innamorata di questa ricerca dopo i quarant’anni è diventata per gli indios dell’amazzonia un simbolo di riscatto e di lotta. Grazie all’ossessione, ha scoperto un’altra versione di sé. A questo serve il sogno, è un viaggio che rivela chi sei.

Anch’io mi sono rispecchia­ta in queste vite, per cercare di capire chi ero e chi sono diventata.

Costruire un Eden in terra per i protagonis­ti del suo libro è un modo per garantirsi l’eternità?

Sì, esatto. Claude Monet, che rimandava di continuo la consegna della sua serie delle Ninfee ,lo faceva perché non voleva separarsi dal suo Paradiso. Veniamo alle sue avventure botaniche. Quelle che nel libro sono sempre descritte in chiave ironica…

Sì, o meglio dell’autoironia. Per me è il segreto per sopravvive­re. In Cronache dal Paradiso anche la rievocazio­ne della vita nella casa di campagna dell’infanzia, quella che è andata perduta e che nessuno di noi pensa di ricomprare, è scritta in questa chiave. Per fortuna, mi dico, quella casa, il

mio Paradiso Perduto, non c’è più, quella situazione non c’è più. Non avrei potuto essere la donna che

sono, se una serie di privilegi non si fossero infranti miserament­e. Mi ha permesso di ricomincia­re da

zero e cercare la mia strada.

Che l’eden perduto sia reale o solo sognato poco conta: ognuno può immaginars­i un Paradiso su misura e decidere di spendere la vita per riconquist­arlo

Qual è il suo giardino ideale?

Non c’è una versione codificata. Sono partita dal giardino di nonna, con le ortensie che per

me erano un piccolo Eden e che continuo a coltivare, ricercando quella tonalità di azzurro che ancora

mi sfugge. Sono passata al Gran Burrone (l’eden ribelle che non rispettava nessuna delle regole descritte dall’estetica dei giardini) e per altri terreni e terrazze. Nulla è permanente. Ho traslocato più volte. Ora, come racconto nel libro, le piante di una vita le ho collocate in Salento. Credo che questa

sia per ora una sistemazio­ne definitiva. Portarmele dietro fino al Sud mi è sembrato un gesto bello, anche se non tutte sono sopravviss­ute. Ma anche

questo fa parte della natura. Io lascio il giardino arruffato e disordinat­o, rispecchia il mio carattere.

Ma le piante non poteva ricomprarl­e sul posto?

Me lo chiedono tutti. Ma sono piante che mi hanno seguito, alle quali mi sento legata. I soldi che ho risparmiat­o dall’analista li ho spesi tutti per loro, hanno la stessa funzione. Vivo una forma di

sospension­e del tempo quando faccio giardinagg­io e colgo un invito implicito alla cura, alla gentilezza. Del resto gli Healing Garden si stanno diffondend­o anche da noi, no? Mandela nella biografia racconta che aver coltivato una piantina è stata una delle cose che gli hanno permesso di resistere in carcere.

Come si muove in giardino?

Mi ritrovo a parlare ai gerani, come faceva mia madre. Probabilme­nte è un modo diverso di parlare con se stessi. Poi il giardino si condivide

sempre con altro, con la terra. Quindi, anche con le persone a cui si è voluto bene. È un modo di ricongiung­ersi a un momento, a una persona con cui

si è stati felici.

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