Corriere della Sera - Io Donna
“Grazie, papà, per avermi insegnato l’autodifesa”
Più di cinquanta scrittrici italiane hanno deciso di partecipare a un’azione collettiva per ampliare la riflessione sulla violenza contro le donne e sulle “parole per dirla”, scrivendo racconti da diffondere su tutti i giornali. A io Donna Romana Petri sv
Da piccola, mia madre ha voluto iscrivermi a danza classica. Non ho resistito a lungo. La danza classica mi piaceva da guardare, da fare non era per me. Per il mio corpo avevo altre ambizioni che conosceva solo mio padre. Era per questo che di nascosto mi insegnava qualche colpo di boxe o, meglio ancora, quelle mosse che non erano uno sport, ma difesa personale. E che per una donna significavano semplicemente mettere fuori combattimento anche per poco un avversario per poi avere il tempo di fuggire. Ricordo che mi diceva sempre: «La storia di puntare alle palle è una stronzata. Rischi che ti prendano per la caviglia, tirino e ti facciano cadere a terra battendo la testa. Si deve puntare alla gola, al pomo d’adamo. Allora vengono giù come ciocchi e tu puoi dartela a gambe». E poi mi aveva insegnato anche un altro trucco. Se mi trovavo a camminare in una strada semideserta e da lontano vedevo un gruppetto di ragazzi, dovevo solo alzare lo sguardo, puntarlo su una finestra e fare grandi saluti con le braccia e poi dire: “Ti chiamo subito”. Possibilmente mettendo la mano destra accanto all’orecchio mimando una cornetta. L’ho fatto tante volte e ha sempre funzionato. Alzavano lo sguardo pure loro, ma, per non saper né leggere né scrivere, mi lasciavano in pace. Mio padre mi aveva anche insegnato come si tengono le chiavi. Mai in tasca, si tengono in mano, con quelle piccole tutte nel pugno e quella lunga tra l’indice e l’anulare. È un’arma. Non mi voleva spaventare, mi metteva in guardia. Gli esempi erano molti: se ti prendono per il collo; se da dietro ti prendono per i capelli; se ti stringono forte con le braccia intorno al busto per immobilizzarti e portarti via. C’era una soluzione per ogni presa e lui le conosceva tutte. Ma tra il dire e il fare... commentavo io. E lui mi diceva che avevo ragione. Era difficile. Anche il tanto amato pugilato, andava bene ma era molto meno sicuro della difesa personale. «Stai sempre all’erta» mi diceva. «Purtroppo devi imparare a prevenire. Voi donne siete più brave in tutto. Avete un’unica fregatura: siete meno forti fisicamente». È tutta colpa di questa storia qui.
Sono arrivata a vent’anni e mi era bastato il trucco di guardare in alto e di parlare a un’ipotetica persona affacciata. Era sempre andata liscia. Alzavano lo sguardo pure loro, ma non sono mai arrivati alla conclusione che fosse un trucco.
All’epoca trovai il mio primo lavoro in un’ambigua società che prendeva (in nero) solo ragazze per poi caricarle tutte su un furgone con un bel po’ di volumi di enciclopedie sotto il braccio, scaricarle in un punto preciso della città, dare a ognuna il suo percorso e quattro ore di tempo. Alla fine ci saremmo ritrovate lì e saremmo state accompagnate a casa. L’appuntamento del mattino no, quello era sempre in un bugigattolo di ufficio, dove c’era un signore di una certa età che ci dava consigli. O, come diceva lui, ci formava. Quando venivamo lasciate sul posto di lavoro, avevamo la nostra lunga strada (nei quartieri più commerciali) e il lavoro consisteva nell’entrare nei negozi proponendo l’acquisto delle enciclopedie. Ce ne erano per tutti i gusti. Non venivamo trattate sempre bene, spesso ci dicevano in malo modo di andarcene. Qualche volta, se il direttore del negozio era un uomo, ci chiedeva di mostrargli tutto il materiale solo per poi chiederci un appuntamento per un caffè. «Non c’è niente di male» diceva. «Una bella ragazza fa piacere portarla fuori». Qualcuno faceva battute anche sul mio abbigliamento: «Se vuoi convincere qualcuno a comprare queste enciclopedie dovresti vestirti in modo un po’ più provocante: minigonna, ca
micette sbottonate, pantaloni aderenti...». Dentro di me fremevo come un cavallo. E di punto in bianco me ne andavo senza dire una parola. Ho venduto parecchie enciclopedie, ma solo a commercianti di sesso femminile. Se non c’era un cliente in circolazione mi davano ascolto. Alla fine mi chiedevano se con quel lavoro mi ci pagavo gli studi, e alla mia risposta affermativa la conversazione finiva sempre con un: «Allora una enciclopedia a rate te la compro proprio volentieri».
Chi ci scorrazzava sul furgoncino era un certo Silvio. Sui trent’anni o poco più, faccia da saponetta, capelli lisci e sempre un po’ unti. Ci faceva cantare canzoni a squarciagola. Eravamo sempre un sei-sette alla volta, tutte sui vent’anni. C’erano anche quelle che non studiavano e non avevano finito nemmeno le superiori. Speravano che quel lavoro si trasformasse in qualcosa di più serio, o si limitavano a fare un’esperienza per il futuro curriculum.
Silvio era un tipo che faceva molti apprezzamenti su di noi. Ma pesanti, cose come: «Tu con quelle tette arriverai lontano, tu con quel bel culetto, tu con quelle gambe lunghe». Io ero quella delle gambe lunghe e da dietro lo guardavo nello specchietto retrovisore con faccia torva. Lui ci scherzava sopra e diceva alle altre che non avevo il senso pratico. Diceva proprio così. Indossava sempre una camicia aderente e molto sbottonata sul petto per mettere in mostra peli e catena d’oro. Anche i pantaloni, jeans bianchi, erano molto aderenti. Faceva lo spiritoso fuori luogo con tutte. Credeva di essere divertente quando invece non faceva ridere nessuna. A me non piaceva neanche cantare. E non cantavo.
Quel giorno, l’ultima a essere riaccompagnata a casa sono stata io. Lo decideva lui a chi toccava e diceva sempre che gli tornava comodo perché poi aveva un “impiccio” proprio da quelle parti. Gli piaceva usare la parola “impiccio”, cercava di capire che effetto ci facesse, se quel mistero aumentasse i suoi fascini.
Abitavo a Monte Sacro, esattamente a Piazza Monte Torrone che era senza uscita. Tutto il resto era circondato da campagna con pecore al pascolo. Da lontano si vedeva una cartiera. Ci avevo scritto anche una poesia. Ricordo solo l’inizio: «Nuvole di fumo sporche ciminiere...».
Stavamo quasi arrivando quando lui diede una sterzata e prese per via Monte Nevoso che alla cartiera portava. Gli dissi che si era sbagliato, non abitavo lì. Ma lui, muto, prese per un sentiero sterrato.
E all’improvviso frenò. Scesi immediatamente e cominciai a correre con la mia borsa a tracolla piena di volumi tranne uno che proprio non ci entrava e tenevo in mano. Fu il peso a rallentarmi e anche le scarpe. Mi raggiunse e mi diede una spinta. Non andai a finire per terra, feci qualche passo a busto inclinato, un po’ a scapicollo, e mi voltai verso di lui.
- Che ca... vuoi?
- Quello che vojono tutti.
- È meglio che te ne vai.
- È mejo che nun rompi er ca... Te conviene. Tanto, poi te piace.
Ero vicinissima a casa. A poche centinaia di metri c’era mio padre che non sapeva nulla di quello che mi stava succedendo. L’idea mi mise addosso una tristezza senza fondo. Una grande amarezza. Che dovevo fare, ripassare tutte le prese per capire come liberarmi? Non ce l’avevo la testa per farlo. Era tutto confuso e mi tremavano le gambe.
- Si stai bòna nun te faccio male. Solo bene.
E io sorrisi. Adesso sono sicura di aver sorriso per la paura. Ma lui non lo capì. E così spalancò le braccia e in quella posizione vincitrice percorse i pochi metri che ci dividevano. Io restai immobile, ma dalla spalla feci cadere a terra il borsone con i volumi. Teneva le braccia basse mentre si avvicinava. Rimasi ferma. Non c’era nessuno. Solo lui e io. Tenevo in mano l’unico volume che non era entrato nella borsa, lo tenevo basso, in modo arreso. Ma quando mi arrivò di fronte glielo diedi di taglio e con tutta la forza sul famoso pomo d’adamo. E venne giù come un ciocco.
Corsi via. Più veloce che potevo. Alla mia sinistra c’era una rete metallica e rilucente che mi appannava la vista. E poi sudavo. Sembrava che le gambe non mi reggessero, ma non mi fermai e come per una sindrome da slancio, quando entrai nel portone di casa i tre piani li feci a piedi, sempre di corsa, pure se c’era l’ascensore. Ci entrai così in salotto, dove c’era mio padre che in poltrona leggeva un libro. Stavo ferma davanti a lui a sfiatare tutta quella disperata corsa.
- Forse ho ammazzato uno, gli dissi. - Comincia dal principio.
E allora, a fatica, ma senza piangere, gli raccontai come erano andate le cose. Ogni tanto fermandomi per togliermi con le mani il sudore dagli occhi che continuava a scendere. O per riprendere fiato. Conclusi dicendo:
- E se davvero l’ho ammazzato?
- Questo lo sapremo presto – rispose calmo mio padre. – Al telegiornale di stasera. O domani sui quotidiani.
- Va bene. Ma se davvero è morto? – lo incalzai.
E a quel punto lui disse la frase, quella che mi è rimasta incistata nella mente per tutta la vita. Ancora oggi me la sento risuonare nella testa con la sua bella voce. Ancora oggi che è morto da tanti anni.
- In tal caso, figlia mia, meglio un processo che un funerale.
Avremmo potuto riderne. Effettivamente quella frase aveva un che di comico. Invece ci abbracciammo. Nessuno di noi due pianse, nessuno di noi due disse nulla.
Dopo due settimane in cui non si parlò di un morto ammazzato dalle parti di via Monte Nevoso, ripresi colore. Allora mio padre disse che dovevamo andare in quel bugigattolo di ufficio, perché avevo chiuso parecchi contratti e me li dovevano pagare. Entrò con il suo metro e novantadue di altezza. Furente.
- Chi di voi è Silvio? – chiese. Ma Silvio non c’era. C’era un sostituto e c’era il solito signore anziano. E le ragazze pronte a salire sul furgone che mi vennero tutte intorno e mi chiesero che fine avevo fatto. L’anziano signore disse che contanti non ne avevano in quel momento.
- Allora mandi il sostituto a prelevarne in banca - disse mio padre. E aggiunse:
- Che è meglio. Guardi, è meglio per tutti.
Tranne il sostituto, rimanemmo tutti lì per un tempo lungo e irreale. In piedi, anche il signore anziano. Quando il ragazzo tornò, contò i soldi che mi doveva e li consegnò a me. Ce ne andammo. Sulla porta mio padre si voltò e disse:
- Dite a quel... come si chiama quello stronzo?
- Silvio – dissi io.
- Ecco, ditegli che ci si vede in giro. Non mi è mai più capitato niente di così grave. Ma anche il meno grave mi ha sempre fatto girare il sangue intorno al cuore a gran velocità. Sento parole che nessuno dovrebbe pronunciare e dall’interno mi sembra di non avere più lo spazio sufficiente per contenere l’intero mio corpo.
*Romana Petri è figlia del cantante lirico Mario; con è stata finalista allo Strega 2023.
Rubare la notte