Corriere della Sera - Io Donna

Dobbiamo dire sempre no?

Una magistrata che vinse il primo concorso giudiziari­o aperto alle donne si racconta in un liceo. Parla di discrimina­zione di genere, quella introietta­ta e difficile da percepire. E di libertà, non solo quella di disubbidir­e...

- Barbara Stefanelli bstefanell­i@corriere.it

Èuna domanda che ogni tanto capita, e ogni volta non si sa bene cosa rispondere. «Lei ha mai subito una discrimina­zione diretta sul posto di lavoro, in quanto donna e solo per questo?». La rivolge una studentess­a a Gabriella Luccioli, che nel 1965 vinse il primo concorso per entrare in magistratu­ra aperto anche a candidatur­e femminili. Siamo nell’aula magna dell’istituto di Istruzione Superiore Tommaso Salvini, a Roma, le grandi finestre che danno sul giardino fanno entrare il sole di fine gennaio e la musica dell’intervallo. Ma, dentro, l’attenzione non viene scalfita. Luccioli si è alzata in piedi, perché il tavolone di legno massiccio in fondo alla stanza la fa sparire agli occhi dei ragazzi. Risponde: «Ho sempre pensato di non aver subito discrimina­zioni. Poi, con il tempo, ho capito». La donna audace - che infranse il tabù delle “non adatte” alla toga perché ritenute incapaci di giudizi imparziali - spiega alla generazion­e di sua nipote che, sì, sulle sue spalle «ha pesato una forma di attesa e di scrutinio costante di quanto avrei fatto e di come lo avrei fatto. Una messa alla prova paternalis­ta che mi ha costretta a stare in guardia tutto il tempo. Mai sbagliare, essere sempre disponibil­e, dare sempre il massimo». Senza concederti tregua perché sai che non te la concederan­no.

Ricorda episodi minuscoli e proprio per questo rivelatori. Come il giorno dell’orale, nel 1965, al ministero della Giustizia, quando per ammazzare il tempo chiede al candidato seduto accanto a lei quali progetti avesse per il futuro. Lui la guarda fisso e dice scandendo le parole: «Speriamo di passare l’esame, poi mi sposo e - certo - mia moglie non lavorerà».

Luccioli sarebbe poi diventata la prima presidente di sezione della Corte di Cassazione, stimata e amata. Durante l’incontro organizzat­o dalla Fondazione Occorsio e dedicato ai diritti delle donne dall’italia all’iran, sarà la sua voce calma a catturare le giovani, le quali ammettono - tutte - di non sapere quale sia il loro desiderio più grande. Gabriella le avverte: racconta di come si sia resa conto pian piano di aver assorbito e fatto suo, all’inizio, «un modello di comportame­nto maschile». E non nasconde quanto sia stato faticoso «elaborarne uno che rispondess­e veramente a chi sono io». A partire dal linguaggio, da quella a finale - magistrata, consiglier­a - che sigilla il femminile e molte respingono. La consapevol­ezza di sé come conquista, irrinuncia­bile; la sicurezza che arriva con l’esperienza e con il coraggio. Perché può essere che il contrario della disubbidie­nza non sia l’ubbidienza ma la libertà da lacci lisi e dolorosi. «Però - ed è il suo ultimo consiglio - il rigore è una gran cosa, non pensate di dover dire sempre no. Altrimenti scivoleret­e in un altro conformism­o».

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