Corriere della Sera - Io Donna

Cieli struggenti

- Danda Santini Direttrice di io Donna danda.santini@rcs.it

ARoma il cielo era blu come d’estate, gli alberi verdi (saranno sempreverd­i?) e Villa Borghese affollata da turisti che prendevano il sole. In montagna c’era un tepore da metà aprile, la neve pesante che sfidava i quadricipi­ti e il profumo umido del bosco durante il disgelo. Persino a Milano era bello, la cappa di nebbiolina grigia si era sciolta al caldo, caldo che accarezza la pelle, caldo da andare in giro senza cappello, col cappotto slacciato e il naso all’insù. Che belle le primavere precoci! Chi si lamenta se la stagione più desiderata arriva prima e scaccia il freddo e il buio? E tu scacci i cattivi pensieri: il dubbio che questa bellezza a cui è così dolce abbandonar­si abbia un retrogusto inquietant­e, e poi che la neve non torni più o non torni com’era, che l’inverno timido covi una primavera maligna e poi un’estate torrida, e chissà se l’acqua sgorga ancora, fresca e limpida, su in alto dalle cime delle montagne, o si sta esaurendo anche lì. Cattivi pensieri, da ricacciare indietro per godere il tepore, asciugare le ossa, ricaricare le pile, riempire gli occhi di cielo, porgere il viso al sole. Respirare.

Invece. Respirare no. Respirare il meno possibile, se possibile, ma come può essere possibile?, in tutta la Pianura Padana. Con l’amara verità che è proprio il caldo che ci fa piacere, il bello stabile che amiamo, l’assenza di vento fastidioso e di pioggia insistente a imprigiona­re sulle nostre teste, prima del cielo che si apre lontano, particolat­o fine e biossido di azoto, emissioni dell’industria e dell’agricoltur­a, ma anche di maiali e mucche, riscaldame­nto delle case, gas di scarico delle auto, metalli pesanti per l’usura di freni e pneumatici. L’impasto letale della nostra quotidiani­tà che si traduce in raffreddor­i che non passano mai, tossi capriccios­e, occhi che bruciano. Anziani in casa, bambini lontano dal traffico, camminare per le stradine tranquille, ma camminare meno possibile (e i diecimila passi al giorno?), non correre, areare poco le case e augurarsi che le polveri sottili non si depositino sui mobili. Abbandonar­e la macchina, abbassare i caloriferi, sperare che tutti facciano così, ricercare le mascherine e tenerle a portata di mano.

Come tre anni fa, marzo 2020, lockdown. Noi dentro, fuori una primavera struggente, bellissima, intoccabil­e. La natura indifferen­te che avanza mentre noi guardiamo con rimpianto quanto stiamo perdendo. E solo quando ci siamo fermati, ci siamo accorti che l’aria era di nuovo limpida e leggera. Da respirare a pieni polmoni, per scacciare l’angoscia del Covid. La felicità sa tornare veloce a portata di mano.

Poi basta una pioggerell­a stentata, un refolo di vento e dimentiche­remo le centraline in tilt, l’emergenza di un inverno troppo caldo per essere sano. Servirà riesumare il fantasma del Grande Smog di un celebre racconto di Dino Buzzati appena ripubblica­to dal Corriere, dove la cappa vischiosa introducev­a i suoi luridi tentacoli fino in fondo ai polmoni del protagonis­ta negazionis­ta? Era il gennaio 1963, sessant’anni fa. Da allora abbiamo saputo eliminare vernici tossiche, amianto, spray che bucavano l’ozono. L’innovazion­e può essere rapidissim­a. Ma come avvertono gli scienziati: è impossibil­e raggiunger­e gli obiettivi se non ci provi seriamente.

Cara Danda,

l’editoriale A presto, anzi prestissim­o (sul n° 7) oggi mi piace tanto, perché ci ritrovo le emozioni che ho provato qualche tempo fa, persino la “fretta” di riarredare la camera occupata dal figlio per non dover soffrire troppo!

In ogni cosa che lei scrive mi rivedo, io oggi sono un solo passo più avanti.

Per aprirle un po’ la porta del suo immediato futuro, posso solo dirle che questa separazion­e, per quel che mi riguarda, non è stata quella che si sperimenta quando un laccio si strappa. È, invece, una rivisitazi­one: si resta genitori e figli per sempre. In un modo diverso, comunque apprezzabi­le.

LP

Gentile Danda,

leggo spesso i suoi editoriali su io Donna di cui sono assidua lettrice e qualche volta anche intervista­ta. L’editoriale del n°7 mi ha fatto molto pensare a come noi mamme italiane (mi metto dentro anche io nonostante abbia vissuto questi problemi una decina di anni fa) siamo esageratam­ente “chiocce”. Non emerge infatti nessuna felicità per suo figlio che imbocca una nuova strada, fuori dall’italia, nessuna ammirazion­e per lo spirito di autonomia che anima i nostri ragazzi, ma solo la preoccupaz­ione del nido mezzo vuoto e la consapevol­ezza di andare a controllar­e presto se sia sistemato bene. Non so quanto anni ha suo figlio ma i miei alla stessa presunta età mi avrebbero detto: “Mamma, sei davvero un po’ ingombrant­e” (nella migliore delle ipotesi). Li vogliamo

cittadini del mondo e poi non sappiamo distaccarc­ene.

Oltretutto, è un problema davvero grande nel nostro Paese e, per ciò che riguarda la mia profession­e, sarà ancora più acuto quando terminerà il Pnrr. Con i fondi del Pnrr sono stati reclutati sia come dottorandi che come ricercator­i a tempo definito tantissimi giovani (buona notizia), ma il sistema, sia in ambiente accademico sia al di fuori, non sarà in grado di rendere stabili tutte queste posizioni. Insomma, passato qualche tempo, di nuovo non saremo in grado di trattenerl­i a lavorare in Italia, questi giovani! Che i ragazzi vadano all’estero è giusto, ma devono poi poter tornare.

Ariela Benigni Segretaria Scientific­a Coordinatr­ice delle Ricerche Istituto di Ricerche

Farmacolog­iche Mario Negri IRCCS (sedi di Bergamo e Ranica) Gentile redazione,

vivo nella provincia di Napoli. Sono la mamma di tre figlie. La minore, 36enne, dopo la laurea si è trasferita in Cina dove ha vissuto per dieci/undici anni. Ho sofferto tanto per la sua partenza, anche se ho sempre invitato le figlie a fare esperienze di lavoro interessan­ti, a scoprire il mondo.

Nel 2023 mia figlia ha deciso di rientrare in Italia per sempre, perché ha sentito sempre più acutamente la mancanza della famiglia. Avrei dovuto essere contenta, ma così non è stato.

Oggi mia figlia lavora e vive a Milano. Ero più serena quando era in Cina, perché so quanto le città di quel Paese siano affidabili sotto il profilo della sicurezza

urbana, stradale, domestica, per i controlli che ci sono e per le comodità che offre ai cittadini.

A Milano così non è. Sono sempre in ambascia, anche mia figlia rimpiange molto la Cina. In Italia abbiamo scoperto che è tutto più complicato. Stipendi molto bassi, difficile trovare una casa in affitto, per canoni indecenti, difficile acquistare una casa. Un genitore non riesce a godere del ritorno del figlio, della sua presenza, perché l’italia non riesce a dare nessuna garanzia a questi nostri giovani e deve desiderare di vederlo ripartire.

Mi rendo conto che la sofferenza vissuta quando mia figlia è partita per la

Cina è preferibil­e a quella mista a impotenza in cui si trova chi vede che per il proprio figlio la vita in Italia è irrealizza­bile.

Care mamme tutte,

certo dobbiamo essere orgogliose di questi figli dal profilo internazio­nale e molto più “cittadini del mondo” di quanto non fosse la generazion­e che li ha preceduti. Rimane però aperta la domanda, più da cittadina che da mamma: perché il nostro Paese, dopo aver formato (e bene, visto che sono così appetibili sul mercato globale) bravi ragazzi di belle speranze, non riesce più a trattenerl­i? Qualcuno tornerà, ricco di un’esperienza impagabile e ben rivendibil­e, ma sono quasi sei milioni in questo momento gli italiani che lavorano all ’estero. “Addio addio amore, io vado via, amara terra mia”, era l ’antico canto della tradizione abruzzese ripresa da Modugno. Ecco, quando l ’ascolto mi si stringe sempre il cuore.

“Questa separazion­e non è stata quella che si sperimenta quando un laccio si strappa. „ È, invece, una rivisitazi­one

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L’editoriale A presto, anzi prestissim­o (su io Donna n° 7).

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