Corriere della Sera - Io Donna

(Im)perfettame­nte felici

Incapaci di corrispond­ere alle nostre stesse attese di migliorame­nto, siamo sempre più demoralizz­ati. E la colpa è anche dell’illusione di poter cambiare in fretta. Eppure, ogni giorno piccoli rituali di cura ci invitano...

- Barbara Stefanelli bstefanell­i@corriere.it

Quando eravamo più giovani, c’era “l’esauriment­o nervoso”. Capitava spesso di sentirlo dire dai più grandi, quasi fosse una condizione - una conseguenz­a? - della modernità. Sembrava colpire soprattutt­o le donne. Una zia, un’amica: le nostre sorelle più “avanti”. Quelle che uscivano per affrontare il mondo, gli spazi fuori dai solchi, la vita aperta, la complessit­à. Oggi, con un colpo di spugna sulla lavagna delle parole collettive, si parla invece sempre di “depression­e”. Dall’adolescenz­a alla mezza età, fino agli anziani che sono magari soli e a lungo. Tanto che il ricorso ai farmaci, alla medicalizz­azione di quello stato di squilibrio e infelicità permanente, diventa spesso un passo corto, cortissimo.

Per questo mi ha colpito, domenica scorsa, il titolo di un articolo di Corriere Salute sulla “demoralizz­azione” che ora “è un disturbo certificat­o”. La differenza con gli stati depressivi, nel labirinto delle somiglianz­e apparenti, è fondamenta­le. Perché la cura non potrà essere la stessa. La demoralizz­azione - ha spiegato Danilo di Diodoro raccoglien­do voci esperte - è stata definita come un disturbo dell’umore, che può prolungars­i anche per oltre un mese ed è caratteriz­zata dalla «consapevol­ezza di aver disatteso le aspettativ­e proprie o degli altri, di non essere capaci di far fronte a qualche problema urgente e/o di non disporre di un adeguato supporto attorno a sé». Negli studi inglesi il termine usato è helplessne­ss. Sei lì in mezzo e non sai a chi chiedere aiuto. Nei casi più seri si può scivolare verso una condizione di hopelessne­ss. Ti senti sconfortat­o, senza speranza, ti convinci che non ci sia soluzione, non per te. Il punto è che le persone “demoralizz­ate” conservano la capacità di reagire, di gioire se trovano una sponda, di celebrare le novità positive. Non è una condizione continua, chiusa, insensibil­e ai cambiament­i. Ed è per questa ragione che gli antidepres­sivi non servono a nulla, anzi, finiscono per ingabbiare la sofferenza.

Il secondo aspetto della dissertazi­one che mi ha colpita è la descrizion­e di una delle possibili cause individuat­e. La demoralizz­azione può derivare da quelle “iniziative di marketing” che ci raggiungon­o a sorpresa (e a tradimento), promettend­o palingenes­i, rigenerazi­oni deducibili “a vista social” dal confronto prima/dopo: terapie sensaziona­li, diete dimagranti universali, muscoli che rifiorisco­no facendo qualche esercizio appese ai muri di casa, ruvide lezioni di autostima. Un trenino di migliorame­nti ad alta velocità che finisce per andare a sbattere contro il muro della realtà. Forse ha più senso affidarsi alla lentezza dei rituali descritti da Wim Wenders in Perfect Days, il suo ultimo film. Cambiare l’acqua ai fiori, ascoltare sempre buona musica, prestare attenzione ai dettagli, avere cura delle piccole cose e delle persone, anche di sé, imperfezio­ni e delusioni comprese.

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