Corriere della Sera - Io Donna
Un documentario ridà la parola alle donne di Kabul
«Donne con la museruola. Prigioniere, ingabbiate sotto i burqa, eterne vittime della barbarie dei talebani». Questo il fermo-immagine che il racconto sull’afghanistan nel tempo ci ha consegnato. Un racconto che la giornalista e filmmaker francese Solène Chalvon-fioriti, 36 anni, contraddice. La reporter che da oltre un decennio esplora la condizione della donna afghana con reportage, libri e documentari, nel suo ultimo film, Afghanes, incontra quattro generazioni di donne e restituisce loro la parola. «Una parola femminile che era stata confiscata» spiega a io Donna. «Ma i talebani sono solo gli ultimi di una lunga lista».
Dai sovietici alle forze Nato, ai mujaheddin, il film mostra come anche i presunti liberatori abbiano contribuito all’invisibilità delle donne afghane. «Quando sono arrivata in Afghanistan la prima volta lavoravo per redazioni di sinistra, Libération, Radio France, ma anche per loro l’unica rappresentazione era quella miserabilista. Eppure l e donne non sono imbavagliate, la loro parola esiste.
Certo, bisogna fare fatica per ascoltarla. E anche se i talebani non danno più visti giornalistici, ci si può sempre inventare qualcosa. Io vado con l’onu, con le Ong, chiedo visti per la formazione». Il film le mostra indomite: si intravedono ragazzine coi libri in un atelier di sartoria. «È così, le sartorie, le uniche attività ancora in piedi tra mille difficoltà, sono anche scuole clandestine. L’afghanistan è casa mia: mio figlio è stato concepito lì, gli amici più importanti che ho vivono lì. Come loro ho dovuto imparare a muovermi, la strada è un posto ostile. E con una videocamera è tutto più difficile. È facile nascondersi sotto il burqa se hai solo un bloc notes e una penna. Ma non c’è che l’immagine per raccontare quella realtà, non c’è parola scritta che restituisca il viso di quelle donne».