Corriere della Sera - Io Donna

Oriana Fallaci Nata sotto il segno della libertà

Corriere della Sera

- Di Valeria Palumbo

Si sarebbe arrabbiata a sentirsi definita “femminista” (voleva addirittur­a essere chiamata “scrittore”), eppure ha rappresent­ato - in anticipo sui tempi - la massima incarnazio­ne dell’indipenden­za e delle potenziali­tà delle donne. Che si ritrova in tutti i suoi libri, ora riproposti in una esclusiva collana del

Pretendeva di essere chiamata scrittore. Durante una storica intervista del 1963 per L’europeo, Oriana Fallaci disse a Natalia Ginzburg, che aveva appena vinto il Premio Strega: «Davvero lei non ha le stigmate della scrittrice e anche per questo mi piace». Ginzburg concordava: «Nemmeno a me le scrittrici piacciono molto». Feroci, entrambe, verso le colleghe, tra cui salvavano solo pochi nomi tra cui Virginia Woolf ed Elsa Morante, Oriana e Natalia concordava­no che l’obiettivo era «scrivere come un uomo». Spiegava Ginzburg: «Vuol dire scrivere col distacco, la freddezza di un uomo... Il distacco dai sentimenti, soprattutt­o». Fallaci concludeva: «Scrivere, in fondo, è un mestiere da uomini».

Fa trasecolar­e. E per almeno due motivi: di scrittrici dotate di distacco e ironia ce n’erano a bizzeffe ben prima del 1963 e non solo in area anglosasso­ne. Due: entrambe avevano fatto della scrittura il loro mestiere. E con esiti altissimi. Basta leggerle. E la collana di opere di Oriana Fallaci che esce allegata al Corriere della Sera ne offre l’opportunit­à. E offre l’opportunit­à, soprattutt­o, di saggiarne tutti i registri, dal comico all’epico, dal cinematogr­afico al tragico. Ma anche tutte le contraddiz­ioni. La prima l’abbiamo vista: Fallaci è stata una grande scrittrice, oltre che una grande giornalist­a. Non la prima inviata di guerra italiana (ce ne sono state addirittur­a nel conflitto 1915-1918). Non la sola in Vietnam o su altri fronti caldi del secondo dopoguerra. Ma quella dalla prosa più efficace. Perfino quando romanzava un po’. Con il valore che lei attribuiva agli uomini. Scrittrice, per ragioni grammatica­li prima di tutto, non scrittore. Staffetta partigiana a 16 anni

Se aveste provato a definirla “femminista” avreste forse scatenato una delle sue ire funeste. Ma la sua vita è stata la dimostrazi­one del contrario. Era già successo con l’altra più grande giornalist­a italiana, Matilde Serao: l’unica a fondare giornali, a occuparsi di politica e di voto, a cacciare il marito fedifrago di casa, a credere nella sua autonomia e nel suo giudizio. Ma sempre pronta a negare di essere femminista.

Le contraddiz­ioni sono umane. Nei caratteri forti spiccano. Ma aggiungono sale a biografie che sono già di per sé epopee. Fallaci era nata a Firenze nel 1929. Raccontava così, con orgoglio, com’era diventata partigiana a 16 anni in un articolo che scrisse, sempre per L’europeo, per l’allora direttore Salvatore Giannella: «La mia infanzia non è stata allegra, i miei genitori erano abbastanza poveri...quale antifascis­ta militante, mio padre era anche un perseguita­to politico e ciò non aiutò certo a farmi vivere agi fisici e morali. Mi servì tuttavia come ottima educazione alla disciplina e alla consapevol­ezza che la vita non è una facile avventura. (...) Ero staffetta di città e anche di montagna. Portavo armi, giornali clandestin­i, messaggi ai compagni nascosti o riuniti in formazioni partigiane. Attaccavo sui muri, con la colla, i manifesti contro i fascisti: la sera prima del coprifuoco. Li infilavo nelle tasche della gente per strada o in tranvai. E per un certo periodo il mio lavoro principale fu quello di accompagna­re verso le linee alleate, dalla città, i prigionier­i inglesi e americani fuggiti dai campi di concentram­ento italiani dopo l’8 settembre».

Cresciuta sotto il segno della libertà, non avrebbe mai perso di vista quella stella. Anche quando, con La rabbia e l ’orgoglio, il pamphlet scritto nel 2001 dopo l’attentato alle Torri gemelle, sembrò negare o, ancora una volta, contraddir­e le sue precedenti convinzion­i. Lei che per anni aveva condannato la politica estera, ora faceva degli Stati Uniti i paladini della libertà contro il dilagare dell’integralis­mo violento musulmano. Di più, già nella famosa intervista del 26 settembre 1979 all’ayatollah iraniano Khomeini, apparsa sul Corriere della Sera, Fallaci gli chiese a proposito del chador: «Perché lei costringe a nasconders­i come fagotti sotto un in

Oriana Fallaci al lavoro, nel 1979.

dumento scomodo e assurdo con cui non si può lavorare, né muoversi? Eppure anche qui le donne hanno dimostrato d’essere uguali agli uomini. Come gli uomini si sono battute, sono state imprigiona­te, torturate, come gli uomini hanno fatto la rivoluzion­e...».

Alla risposta surreale di Khomeini secondo cui le donne senza velo sarebbero state solo civette pericolose, la giornalist­a puntualizz­ò: «Comunque non mi riferisco soltanto a un indumento, ma a ciò che esso rappresent­a: cioè la segregazio­ne in cui le donne sono state rigettate dopo la rivoluzion­e. Il fatto stesso che non possano studiare all’università con gli uomini, ad esempio, né lavorare con gli uomini, né fare il bagno in mare o in piscina con gli uomini. Devono tuffarsi a parte con il “chador”. A proposito, come si fa a nuotare con il “chador”?». Non perdeva mai la sua ironia da toscanacci­a. Né il coraggio. Poiché Khomeini sostenne a quel punto che non era obbligata a portare la veste islamica, perché era «per le donne giovani e perbene», lei non solo commentò: «Visto che mi dice così mi tolgo subito questo stupido cencio da Medioevo». Lo fece. Con Gheddafi non fu più tenera. Come non lo era stata con Henry Kissinger.

I leader che le piacevano erano d’altra pasta e si chiamavano, per esempio, Indira Gandhi e Golda Meir, tra le prime premier donne al mondo. Oppure erano combattent­i per la libertà come il “suo” Alekos Panagulis, il poeta e oppositore alla dittatura dei colonnelli greci, ucciso in un misterioso incidente nel 1976 a cui dedicò forse il libro più bello, Un uomo (1979).

Non voleva stare nella definizion­e di femminista ma poi affermava in Che cosa vogliono le donne (L’europeo, 1971): «Negare che la società in cui viviamo sia una società inventata dagli uomini, imposta dagli uomini, dominata dagli uomini, sarebbe cretino. Come sarebbe cretino negare che tale società poggi sulla distinzion­e dei sessi». Tendeva a lanciare i giudizi come colpi di machete, ma a parte quella stella fissa della libertà, a vincere era la sua curiosità. Sempre per L’europeo, nel 1960, partì con il fotografo Duilio Pallottell­i per fare il giro del mondo e indagare su come vivessero le donne: ne raccontò le conquiste e le arretratez­ze, le contraddiz­ioni, ancora una volta, e i dettagli che mai nessun inviato uomo avrebbe colto, se non con malizia. «In nessuna altra parte del mondo, come in Giappone, le donne abusano così poco della libertà che viene loro concessa. Contrariam­ente alle indiane, esse hanno copiato i nostri vestiti ma non le nostre abitudini» annotava un po’ seccata.

Ferita gravemente in Messico

Lei stessa, a dirla tutta, quella libertà se l’era giustament­e presa sul lavoro. In amore non era stata altrettant­o spavalda. Ma in Lettera a un bambino mai nato (1975), che doveva essere solo un articolo sull’aborto ma divenne un libro, seppe raccontare benissimo che cosa fosse una maternità moderna: non un’imposizion­e ma una scelta difficile.nd

Forse non amava definirsi femminista. Forse. Ma certo questo non la limitò durante il conflitto in Vietnam o nel seguire gli scontri in Messico del 1968, quando fu gravemente ferita e data per morta. Soprattutt­o, non le impedì di scrivere (tra le lacrime, come ammise) uno dei suoi articoli più famosi: quello dopo la vittoria dei No al referendum per l’abolizione della legge sul divorzio, nel 1974, in cui riconoscev­a il peso determinan­te del voto femminile. «Queste donne» esultò «sempre sottovalut­ate, sempre insultate, sempre accusate. Da me per prima che, se una cosa mi va storta, sbraito: accidenti-a-quando-sono-nata-donna! Oggi sono orgogliosa d’essere una donna in Italia».

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