Corriere della Sera - Io Donna
Melvil Poupaud “Non chiedetemi di fare il gentiluomo”
I ruoli da manipolatore gli calzano come un guanto. Del resto il primo assassino lo ha interpretato a 10 anni. Ora, smessi gli abiti del marito geloso per Woody Allen e in “Il coraggio di Blanche”, a Cannes accompagnerà “Marcello Mio”, l’atteso film su Ma
Melvil Poupaud lo ripete due volte. Più per ricordarlo a sé stesso che per dare un’informazione alla cronista: «Da ragazzo ero carino». Vero, nessuno nel cinema francese degli anni ’90 era più “mignon” di lui. Ma lo dice senza una nota di rimpianto. E lo ripete perché è quello il dato che spiega come tutto sia cominciato e come poi la musica per lui sia cambiata. Chi scrive potrebbe obiettare che, dalla categoria del carino, Melvil è transitato armoniosamente a quella dell’artista rock’n’roll per approdare poi a un periodo elegantemente ambiguo, un po’ Cary Grant. Non fosse per il bel paio di baffi che l’attore francese esibisce oggi («il regista con cui lavoro mi ha chiesto di ispirarmi a Dennis Hopper») si potrebbe pensare che finalmente l’abito e i modi del gentiluomo gli calzino come un guanto.
In realtà l’armadio del co-protagonista del film di Christophe Honoré, Marcello Mio, in concorso a Cannes, deve essere piuttosto fornito: «Spesso porto a casa i costumi di scena alla fine delle riprese di un film. E mi ritrovo, a distanza di tempo, a vestirmi o pettinarmi come questo o quel personaggio. Gli attori sono abitati da fantasmi» ci dice. «E ogni tanto ti chiedi, negli intervalli che passano tra uno e l’altro, chi devi essere. Di recente mi ero fatto anche crescere la barba: ero il presidente della repubblica (nella serie tv Dans l’ombre, ndr)».
In Marcello Mio gli abiti che indossa sono i suoi. Melvil per una volta è solo Melvil; tutti nel film (Catherine Deneuve, Benjamin Biolay) interpretano sé stessi. L’unica a cambiare pelle è Chiara Mastroianni. «Il film è un ritratto di Chiara più che del padre» rivela Poupaud a io Donna. «Christophe mi ha preso in ostaggio, non potevo dire di no». Non è passato molto tempo da quando su quella relazione speciale che unisce attori e registi concludeva: «Christophe guarda Chiara come nessun altro (Chiara Mastroi
anni ha girato sei film SEGUITO con lui, ndr). Lei è il suo De Niro. Lui è il suo Scorsese». Difficile per Melvil chiamarsi fuori da un progetto del genere. Con Chiara Mastroianni ha condiviso un bel pezzo di vita: fidanzati da ragazzini ai primi anni Novanta - galeotto fu un corso di italiano al liceo Fénelon - poi l’inizio della carriera insieme («secondo me tu hai voglia di fare del cinema, ci devi provare»), infine migliori amici. Anche con Marcello Mastroianni ci sono state importanti corrispondenze, compreso un set, quello del regista cileno Raúl Ruiz (per cui Melvil era stato “De Niro” fin da bambino). Il film era Tre vite e una sola morte, il penultimo film di Marcello (Melvil e Chiara vi interpretavano due giovani innamorati, e c’era anche Nanni Moretti in un cameo).
E ci sono state anche vacanze in Italia con Chiara, la famiglia di Marcello era molto accogliente, mi piaceva ascoltarlo raccontare storie e mangiare insieme, si mangiava sempre benissimo con lui. Era un uomo divertente. Marcello Mio lo riporta a noi attraverso sua figlia. Per una vita intera Chiara ha risposto alle domande sui suoi genitori, sulla sua somiglianza con suo padre, ora la mette in scena. Uno scherzo che diventa un abito, una nuova identità per lei, circondata com’è stata per tutta la vita da immagini di Marcello. Anche lei, figlio di una attachée de presse, è nato dentro quel mondo: ha debuttato a 10 anni!
Con il mio primo ruolo da assassino. Era il 1983, il film La Ville des pirates di Raul Ruiz. Poi, siccome ero “mignon” ho avuto una lunga fase romantica (Un ragazzo tre ragazze di Eric Rohmer è stato per più di una generazione il riferimento obbligato per gli amori adolescenti, ndr). Finché sono tornato a essere un manipolatore. In effetti di recente lo è stato per Woody Allen, in Un colpo di fortuna, e subito dopo in Il coraggio di Blanche di Valérie Donzelli (ancora in sala).
Due mariti ipergelosi e un po’ criminali. Amo i personaggi cupi e un po’ mostruosi. Non amo i registi che vogliono le mezze tinte, che ti dicono: «Meglio levare che aggiungere», o: «Non fare troppo». Woody Allen l’ha spinta fino all’omicidio, in Il coraggio di Blanche, plagia e spaventa
a morte sua moglie, Virginie Efira. Che limite si era dato nell’identificazione di personaggi simili?
Io voglio sempre andare il più lontano possibile, ma ci sono stati ruoli che ho rifiutato perché non avrei potuto identificarmi. Mi hanno proposto un pedofilo e all’inizio avevo accettato, avevo pensato di farne un cattivo da favola, ma poi mi sono immaginato sul set e ho capito che non sarei stato capace di spingermi fino a lì. Decisivo è stato l’intervento di mia figlia che mi ha detto: “Papà, per favore, non farlo”. Identificarsi non è sempre la chiave, a me è bastato dirmi che tutti abbiamo dentro una piccola componente di mostruosità, in potenza. Non tutti la agiscono grazie a Dio, ma ho trovato
nd interessante servirmi del lavoro per i film come una specie di indagine su di me. Mi dicevo: “Ecco, ho provato questo”, oppure: “Ricordo che, in una circostanza simile, ho detto una certa cosa alla mia compagna che l’ha sminuita”.
Le scene di intimità sono spesso rivelatorie. Non deve essere facile trasmettere quel grado di intensità.
Non sono le scene di sesso quelle più problematiche, lì c’è una coreografia meccanica che entra in gioco. Di scene d’amore ne ho girate tante: so come fare il mio lavoro, in tutti i mestieri ci sono brutte fasi, si fa quel che si deve. E più esperienza hai meglio te la caverai. Non ho mai lavorato con un “coach di intimità” e non ho grande desiderio di provare, ma ho lavorato spesso con donne registe e con la loro direzione non c’è problema. Sono le scene di violenza quelle più dure da girare, con i corpi che si cercano e poi si respingono. Il fatto di conoscersi bene leva ogni ambiguità. Io e Virginie Efira potevamo fare scene così dure e poi andare a bere una cosa subito dopo, proprio perché non siamo due estranei. Dice: “Amo andare a fondo dei personaggi”. Ci si riesce senza diventare matti?
Qualche volta succede, i set sono luoghi di grande intensità, ho assistito a perdite di controllo, è dovere dell’attore conoscere se stesso, sapere fino a che punto si può spingere: quando sei a cavallo non puoi farti disarcionare. Ho molto apprezzato che in Il coraggio di Blanche la violenza fosse sempre sottile, psicologica.
Il film è un noir, i riferimenti hitchcockiani sono evidenti, c’è una gemella, un doppio. Che modelli aveva?
Ci siamo divertiti con i riferimenti hitchcockiani, il mio personaggio è molto elegante, carismatico, seducente come Jimmy Stewart e Cary Grant, ma non è certo un gentiluomo.
L’incontro con Woody Allen, e il cinema americano, le ha fatto desiderare di espatriare?
Ho sempre avuto voglio di lavorare all’estero, ho fatto alcune cose in Inghilterra anni fa, qualcosa in Cina. Mi piacerebbe finire la carriera a Los Angeles, nel luogo mitico e delirante del cinema americano.
“Mi piacerebbe finire la carriera a Los Angeles, mito e delirio del cinema americano”
Non è un po’ presto per pensare alla fine della carriera? Quando si guarda indietro che conclusioni tira?
Che sono riuscito ad adattarmi come un animale. Cosa che non era scontata. Che certi riflessi che avevo negli anni ’80 ora li ho di meno, e meno male altrimenti non sarei qui. Sono cresciuto in una famiglia cinefila, l’autore era il grande Manitù. Oggi sono più aperto, alla tv, ai film più commerciali, sono meno settario e mi prendo meno sul serio. In Francia c’è di tutto, è un periodo fastoso, sono usciti 300 film in un anno, persino troppo.
Ne ho ancora più. Ci sono tante cose che non ho fatto. E poi diversifico, ho un gruppo rock, scrivo libri, non voglio rientrare tra quegli attori ossessionati dall’essere sempre sul set.
Non teme arriverà il momento in cui non sarà più desiderato?