Corriere della Sera - La Lettura
Storia troppo perfetta La vita non funziona così (e tu lo sai)
Stavolta lo scrittore non riesce a nascondersi e diventa un ingombrante burattinaio
«Nessuna telefonata era completa prima che ciascuna delle due avesse reso infelice l’altra». «Charles era al culmine della carriera, dopo un anno di Lannan Fellowship e una recensione sulla prima pagina del “New York Times” che lo aveva consacrato erede di John Barth e Stanley Elkin, ma non sapeva che quello fosse il culmine». Da un lato abbiamo uno scintillante aforista capace di incastonare un’intera prospettiva di relazioni e destini in svelte sentenze come queste.
Dall’altro un bulimico accaparratore di pagine, 642 nella traduzione italiana, che per sfamarsi ha bisogno di sette capitoli leggibili come novelle autonome, due continenti, una trentina di personaggi, narratori in prima e terza persona, continui flashback, quattro punti di vista, tre generi (romanzo di formazione, spy story, mélo), dozzine di temi sociologici up to date (famiglie disfunzionali, lotta tra i sessi e tra generazioni, liquidità dei legami postmoderni, internet e i social network, fine della privacy e attrazione morbosa per il segreto, ossessione per la fama e sogno di scomparire, manie del complotto e svariati altri), miriadi di allusioni letterarie fin dal soprannome della protagonista, Purity Tyler detta Pip come l’eroe di Grandi speranze di Dickens.
In mezzo, da qualche parte, le ragioni del perché non mi ha convinto Purity di Jonathan Franzen; nonché un oscuro miscuglio di senso di colpa e di isolamento e roi co a uto co mpiaci uto , dato c he a quanto pare ha stregato tutti.
A riassumerne la trama si rischia di violare il tabù dello spoiler, sciupando le tante agnizioni che l’autore ha meticolosamente disseminato nel testo. Un recensore potrebbe invocare l’attenuante che non sono poi così imprevedibili (chi è figlio di chi? Chi ha complottato con chi per fare cosa?) e che a metà romanzo il lettore ha grossomodo già chiaro ciò che l’autore cercherà di occultare il più a lungo possibile. Ma onoriamo le regole. Si comincia con Pip, ventitreenne in una casa occupata con altri drop-out psicopolitici, oppressa da 130 mila dollari di debito universitario, un lavoro frustrante e una madre fragilissima e ricattatoria che non vuol dirle chi sia il padre mai conosciuto. Per trovarlo, si lascia reclutare da un’amica tedesca più grande, Annagret, e si aggrega al Sunlight Projet, sorta di WikiLeaks in apparenza più «pulito» di quello di Julian Assange, fondato dal carismatico Andreas Wolf, figlio di una famiglia di alti papaveri nella Germania socialista, ex dissidente e ora con base operativa in Bolivia dove si circonda di ricche adepte adoranti e persegue il principio che ogni segreto, anche e soprattutto il più sporco, dev’essere esposto alla luce del sole.
Dire quali siano i rapporti tra Pip e Andreas è però già spoiler, e così spiegare perché un anno dopo la ritroviamo a Denver a perturbare la storia tra Tom Aberant e Leila Helou, animatori di una testata di inchiesta online, coppia fin lì affiatata anche se lei continua ad accudire il marito, scrittore non più di successo paralizzato da un incidente, e lui è ancora ossessionato dalla ex moglie, Annabel, tirannica e artistoide rampolla di una famiglia multimiliardaria nel ramo alimentare, che ha prevedibilmente ripudiato girando film sperimentali in cui denuncia la barbarie del consumo di carne.
Il labirinto di incontri, legami, tensioni, equivoci e colpe tra i protagonisti (e altri personaggi tutt’altro che secondari, per esempio la madre fascinosa e disturbata e i due padri di Andreas), si fa sempre più ramificato. Tom aveva conosciuto Andreas a Berlino al tempo della caduta del Muro. La relazione tra Annagret e Andreas (e tra Andreas e Tom) è più torbida e dostoevskiana di quanto sembrasse. Annabel continua a far danni anche quando scompare. La stessa Pip non gioca sempre pulito e tradisce un po’ tutti. Al lettore il compito di orientarsi. Basti dire che l’autore ci riesce perfettamente, allestendo un meccanismo a orologeria in cui i conti tornano all’ultimo centesimo, i perché ci sono tutti e gli interrogativi trovano sempre risposta.
Ma proprio qui sta il difetto di un libro in cui la complicazione dell’intreccio è contraddetta dalla semplicità del tema di fondo: Tutti Abbiamo Un Segreto. A differenza del modello evocato da Franzen (assertore della possibilità di un realismo contemporaneo), e cioè il Dickens di Grandi speranze, dove l’intrigo di tutti contro tutti si dissolve via via in un universo morale enigmatico in cui le intenzioni si rivelano illusioni che si innalzano capricciosamente come fumo nel cielo; a differenza dell’accanimento nei confronti dei personaggi di un suo antecedente più vicino nel tempo, Philip Roth, il quale riesce sempre a far sì che casi e coincidenze tragicomiche si fondano in un’inestricabile amalgama di vita e destino cui a personaggi e lettori non è dato opporsi, in Purity il meccanismo è sempre in primo piano, e con esso l’autore che lo maneggia.
Ma non è una soluzione alla Diderot o alla Brecht: ricordatevi che è un romanzo, non la vita, e anzi spicciatevi a imparare qualcosa perché presto vi ritroverete là fuori, nella dura realtà. Non c’è un autore che si mostra volontariamente ma un autore che non riesce a nascondersi, un burattinaio troppo ingombrante per sparire sotto la scena. Lo spettacolo è di prim’ordine ma lascia freddi, diverte ma non genera mai gratitudine e abbandono.
Lo stesso dicasi per i dialoghi e i pensieri dei personaggi, sempre invidiabilmente brillanti e arguti come quelli del narratore, quanto invece le loro azioni, anche astute, risultano nel profondo stupide perché ostili alla vita. Per la confluenza tutta estrinseca e di testa tra motivazioni soggettive e grandi temi dell’epoca: nessun vero eroe, o antieroe, del nostro tempo. E per lo scioglimento, consolatorio.
Al contrario di quanto in genere si pensa, il romanzo non sopporta troppi perché. L’unica narrativa realistica, di oggi e forse di sempre, è quella che mostra che la vita non quaglia, è eccedente, non si dà senza resti. In Purity quaglia tutto, l’eccesso è solo quantitativo. Franzen è bravissimo ma il colpo non è riuscito.