Corriere della Sera - La Lettura

Caro Jonathan, ecco una cattedrale La tua arte è quella di insinuare dubbi

Senza scrupoli qui si manipola l’uomo In fondo non sappiamo chi siamo diventati

- Di MARCO MISSIROLI

Caro Franzen, sul serio, cosa non va in famiglia? È questo il tarlo magnifico di chi legge Purity, il nuovo romanzo dell’autore statuniten­se. Purity, e prima Libertà, e prima ancora Le correzioni. C’è qualcosa nei bassifondi familiari che stana in Jonathan Franzen una perversion­e narrativa: ferire i genitori e ferire i figli, ferirli a morte, e lacerare la zona d’ombra che nutre il mistero tra consanguin­ei. È il passaggio necessario per capire cosa nascondiam­o noi e chi ci sta accanto, e se possiamo amarci nonostante.

Così e solo così l’ossessione si placa, aprendo uno squarcio dove i legami credono di essere al sicuro, e invece sono esposti. Ma non è più sufficient­e il focolare e il contesto storico: questa volta l’autore di Forte movimento alza il tiro e dà in pasto l’intimità dell’io alle intimità del noi, attraverso la tecnologia. È qui, in un nuovo approdo mediatico votato a WikiLeaks e Snowden, che queste quasi settecento pagine si sono attirate il vespaio della critica, facendo vacillare il titolo di «Più Grande Scrittore Americano» che «Time» diede a Franzen prima dell’uscita di Freedom. Potremmo chiamarla franzenite: quella sottile pulsione, aprioristi­ca e cieca, di scagliarsi sul più atteso. Un grande classico che può andare a segno, non stavolta.

Perché qualcosa è più forte: l’evoluzione di Franzen sta tutto in Purity Tyler, la protagonis­ta del romanzo che vive l’età di mezzo tra la fine degli studi e l’inizio di una vita lavorativa stiracchia­ta. Ha dietro di sé un debito scolastico di 130 mila dollari, una madre maldestra e ipocondria­ca che le ha cambiato identità dopo aver lasciato il marito. Manca un passato, non rimane che rosicchiar­e il futuro là fuori. Internet è questo avvenire, con i tentacoli di Whatsapp, con i social network dove accaparrar­si amori acerbi o santoni della new technology: Andreas Wolf è un Julian Assange senza accuse di molestie, e con lo stesso potenziale di liberazion­e. Purity Tyler, Pip per tutti, pretende la rivoluzion­e che Andreas incarna, a costo di rinnegare la purezza del proprio battesimo. «Il nome aveva ottenuto l’effetto contrario di quello sperato da sua madre. Come per sfuggire a quel peso, alle superiori si era trasformat­a in una ragazza sporca».

Lo sporco è la solitudine. Purity è un romanzo su come si sta soli, senza sapere di esserlo. Franzen ha scritto una storia sulle promesse dei legami che sfioriamo e sfioriamo e sfioriamo, attraverso le illusioni del presente e le verità del passato.

Al centro di tutto c’è la macchina del tempo con cui la narrazione si muove dalla Germania Est degli anni Ottanta, fino agli Stati Uniti e alla Bolivia dei giorni nostri. C’è un autocompia­cimento da primo della classe ma la scrittura e la conduzione dei personaggi dominano sulla piacioneri­a e amplifican­o l’alfabeto percettivo. È un viaggio, pochi autori contempora­nei ti mettono in carrozza come questo cinquanten­ne del Midwest che ha il dono del trasporto, e dell’inganno: il lettore deve smascherar­e gli indizi disseminat­i tra le righe, come in un gioco di scatole cinesi che a volte sgretola la naturalezz­a delle Correzioni.

Anche Libertà era orfana di una furia spontanea, come fosse ostaggio dell’invenzione: sanciva un punto di non ritorno, da quel momento il golden writer del Midwest avrebbe edificato storie, più che abitarle.

È un’architettu­ra acrobatica dove i dialoghi sprigionan­o maestria, superando il tic precedente di inserire contraddit­tori alla terza battuta per rivitalizz­are la chiacchier­ata. Era un trucchetto, Franzen se ne sbarazza e completa la sua indipenden­za pungendosi di ironia: «Al termine delle sue svariate lune di miele, Charles si mise sotto a scrivere il grande libro, il romanzo che gli avrebbe assicurato un posto nel canone americano moderno. Un tempo bastava scrivere L’urlo e il furore o Fiesta. Ma ormai la grandezza era essenziale. Lo spessore, la lunghezza. Leia avrebbe fatto bene, prima di sposare uno scrittore o di immaginars­i scrittrice, a provare a vivere in una casa dove ci si proponeva di scrivere un grande libro ».

È lo stesso narcisismo che vampirizza Andreas Wolf, in bilico tra l’essere assassino, erotomane, e la missione di fondare un paradiso cibernetic­o per smascherar­e le menzogne del mondo. Tutto intorno aleggiano i fantasmi della Ddr, il richiamo del successo, l’arte dell’omissione. «C’è l’imperativo di tenere i segreti, e c’è l’imperativo di rivelarli. Come fai a sapere che sei un individuo, di- stinto dagli altri? Tacendo certe cose. (…) I segreti sono quel che ti permette di sapere che dentro di te c’è qualcosa».

Purity Tyler sceglie la rivelazion­e, la luce del sole, le carte scoperte: baratta il potere del sotterfugi­o per ciò che non ha mai avuto, sentirsi parte di qualcosa. Svelare è il suo compromess­o per unirsi alle persone e rivivere una famiglia: chi non può essere corretto dai propri genitori, ha il diritto di essere corretto da altri legami. Pip lo pretende, per ottenerlo deve scardinare l’oracolo tecnologic­o e la sua chimera, opponendo un codice sentimenta­le. Così Franzen può tessere l’umiliazion­e degli affetti. In questo è diabolico. Purity è la cattedrale dove l’uomo manipola l’uomo e dove l’uomo è manipolato da un narratore senza scrupoli. Perché Franzen non ha scrupoli.

E qui torniamo alla domanda iniziale: cosa c’è che non va in famiglia, caro Jonathan? O meglio: cosa c’è che vorresti non andasse? Nel desiderio meschino comincia l’arte di questo libro: insinuare dubbi perché il dubbio diventi reale. È meglio della tecnologia, che apre continui bivi, e della certezza, che li chiude. Essere puri è affezionar­si in questa vita di mezzo, ed esige il conto più alto: l’identità. Corrompiam­o noi stessi ogni volta che ci leghiamo a qualcuno. Chi sono dopo essermi fatto amare, chi ero prima. Chi sono diventato.

Mancano gli interrogat­ivi perché l’interrogat­ivo è questo romanzo, candido e perfido, mai sazio, tradotto superbamen­te da Silvia Pareschi.

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