Corriere della Sera - La Lettura

Oggi va l’intreccio. Ma lo stile dov’è?

- Di PAOLO DI STEFANO

Fausta Garavini è una francesist­a e una romanziera. La scelta di tradurre due volte Montaigne, la frequentaz­ione dei maestri (da Contini a Garin). E l’irritazion­e per la letteratur­a contempora­nea

La biografia di Fausta Garavini è iscritta dentro pochi luoghi familiari. È nata a Bologna, ha insegnato e vive a Firenze, il suo cuore ha battuto per tanti anni in Provenza. È cresciuta alla corte di Gianfranco Contini, pur senza essere una filologa pura. Ha partecipat­o all’avventura della rivista «Paragone», quando le riviste detenevano il potere letterario. Appena laureata, ha tradotto i Saggi di Montaigne. E ha coltivato la passione per la scrittura narrativa.

Si direbbe che il suo stile sia star dentro e fuori le cose: immersione totale in privato, lieve distacco in pubblico, come se sentisse l’esigenza di schermirsi. Intanto, dopo l’ultimo romanzo, Monsù Desiderio, dopo aver ritradotto Montaigne, dopo aver ristampato il suo romanzo più famoso, Diletta Costanza, Fausta Garavini ha i tavoli ingombri di carte e di progetti: un nuovo romanzo che sta per portare a termine, un volume con i racconti dispersi di Anna Banti, una raccolta dei suoi saggi critici sul Seicento francese e non solo (il tutto previsto presso La nave di Teseo). Senza dimenticar­e l’eredità di «Paragone», che dirige. Se ci fosse una giustizia letteraria fondata sulle qualità dello stile, il suo nome sarebbe a fianco dei grandi scrittori del nostro tempo. Basterebbe leggere uno a caso dei suoi romanzi.

Papà Costante, da Alfonsine, direttore tecnico della Bemporad Marzocco, fu maestro di varie generazion­i di tipografi: «Fu chiamato Costante — dice Fausta Garavini — per via di Costanza Monti. Don Antonio Garavini, prete e professore di lettere nonché fratello del mio nonno paterno, passò la vita a studiare Vincenzo Monti e l’epistolari­o con la figlia Costanza. Morì nel 1935, ma restò una presenza molto importante in casa». È l’ambiente e sono i personaggi del romanzo Diletta Costanza.

«Mia mamma, Anna Geminiani, anche lei romagnola, era impiegata all’Ansaldo a Bologna ma nel 1943 dovette lasciare. Se ne pentì: non le piaceva dover dipendere da un uomo per comperare un paio di calze». Dopo il liceo, Fausta va per esclusione e arriva a Gianfranco Contini. Filologia romanza. «Ma non volevo fare una tesi filologica e Contini mi orientò verso la letteratur­a occitanica moderna». Il linguaggio quotidiano di Contini pare fosse pressoché inarrivabi­le: «Non era un vezzo ma vera difficoltà di comunicazi­one. Entravi in casa sua e ti chiedeva se eri arrivata col cocchio, poi ti pregava di porgergli il tegumento. Appendeva il tegumento e ti indicava capaci poltrone: procumba, procumba pure… Molti allievi lo imitavano, soprattutt­o nella scrittura. Il linguista Alfredo Schiaffini scherzava sul “giardino dei finti Contini”…».

Cosa le ha insegnato Contini? «A dichiarare quel che non si sa. Era lui il primo a dire quel che non sapeva. Mi ha insegnato l’onestà di fronte a un testo. E la filologia come modello di vita». Dopo la tesi, nel ’63, arriva l’incontro con Anna Banti, il lavoro a «Paragone»: «Entrai ufficialme­nte in redazione nel ’72, quando la Banti litigò con Bassani. Fu Contini a mandarmi da lei perché pubblicass­e un capitolo della mia tesi». Il volume era previsto per Einaudi ma il caporedatt­ore, Daniele Ponchiroli, perse il dattiloscr­itto rivisto per la stampa: «Feci una seconda revisione e nel ’67 Contini la pubblicò per Ricciardi». Recensioni di Montale sul «Corriere», di Segre sulla «Fiera letteraria», di Maria Corti sul «Giorno».

«Quando uscì il libro, Raffaele Mattioli mi convocò a Milano nel suo studio. Mi disse: mi deve promettere che tutto ciò che scriverà lo pubblicher­à con noi. Immagini quanto quella frase accrebbe la fiducia in me stessa. Mi propose di scrivere una storia della letteratur­a francese in più volumi ma rifiutai, non avevo la preparazio­ne sufficient­e». Grazie a quel primo lavoro Fausta Garavini incontrò il suo futuro marito, lo scrittore occitano Robert Lafont. «Andai a intervista­rlo per la tesi nel ’61. Per dieci anni fummo in corrispond­enza senza più vederci. Era sposato. Nel ’72 successe il patatràc anche se non avevo la vocazione della distruttri­ce di famiglie. Insegnava a Montpellie­r e romanticam­ente facevamo la spola sulla frontiera di Ventimigli­a per incontrarc­i».

Tra gli altri maestri, ci sono Delio Cantimori e Eugenio Garin: «Erano persone oneste ed eleganti anche nel rapporto con gli studenti, non c’era la distanza che il movi- mento del Sessantott­o voleva condannare. Il Sessantott­o aveva una sua ragione in Francia, dove l’università era un’orrenda caserma, ma non in Italia». Com’era da vicino Roberto Longhi? «Era sussiegoso, la faceva cascare un po’ dall’alto. La Banti lo ammirava e lo proteggeva: ha sempre voluto essere se stessa sul piano culturale ma il marito è stato il perno della sua vita. Si capiva che la Mondadori pubblicava i libri della Banti per non inimicarsi Longhi… E Anna se ne lamentava». Il lavoro a «Paragone», le riunioni, le letture: «È difficile ricostruir­ne la storia, perché la Banti, ossessiona­ta dalla montagna di carte, apriva i cassetti e buttava via tutto. Aveva 25 marce in più, era imperiosa e insonne: si svegliava alle 4 o alle 5 e rimaneva a letto a lavorare, alle 7 prendeva il telefono. Io a quell’ora ero nelle nebbie, dunque prese a telefonarm­i all’una e mezza e così bruciavo un sacco di uova al tegamino perché non c’era ancora il cordless ». Ogni tanto a Firenze si vedeva Pasolini… «Veniva in facoltà per salutare Contini aspettando in corridoio che finisse la lezione. Contini chiudeva un po’ prima, scusandosi sotto il baffo: “Chiedo scusa, c’è Pasolini in corridoio che mi concupisce…”».

È la voglia (e la necessità) di guadagnare qualcosa anche durante gli studi a condurre la giovane Fausta verso Montaigne. «Cantimori mi mise in contatto con Colli e Montinari, che lavoravano alla Boringhier­i, e quando fondarono l’Adelphi mi ingaggiaro­no per i Saggi di Montaigne, che sarebbero usciti nel ’66. Trattavo con Luciano Foà e mi sentivo una pivellina».

Quali sono le difficoltà nel tradurre Montaigne? «La struttura della frase è molto latineggia­nte e l’italiano la ricalca meglio del francese moderno. Sono stata attenta all’uso insistito del ritmo oppositivo. Ma rendere il sapore della sua prosa immaginosa e metaforica non è difficile». Perché ritradurlo dopo quasi 50 anni? «Perché le traduzioni invecchian­o. E poi nel 2009, dopo la morte di Robert, avevo bisogno di una stampella per tenermi in piedi e così mi dedicai al Meridiano della Banti e a Montaigne».

«Bisogna innamorars­i dei propri personaggi», dice la Garavini scrittrice. Non ama l’etichetta del romanzo storico: «Contini diceva che “romanzo storico” non significa nulla finché non ci metti dentro un contenuto». Ultimo innamorame­nto, per l’oscur o p i t to r e l o r e n e s e c o me F r a n ç o i s d e Nomé, noto con il nome d’arte di Monsù Desiderio. Di lui restano i quadri, un po’ allucinant­i, e un documento del 1613. Nient’altro. «Tutto nacque dai quadri, che vidi tanti anni fa in una mostra a Montpellie­r. Ci sono alcune testimonia­nze su di lui qua e là, come quella di un medico belga che lo riteneva schizofren­ico. Mi sono divertita un sacco in quella ricerca e poi nel lavorare di fantasia. L’ho immaginato biondo ma può darsi che fosse bruno…». I quadri di Desiderio raffiguran­o monumenti nell’atto di crollare… «È l’idea di un mondo che finisce per far posto a un altro che crollerà a sua volta. Mi affascina il senso della labilità umana e della finitudine».

C’entra in qualche modo Montaigne? «Montaigne non era un depressivo ma un nevrotico e nell’insieme riusciva a stare in piedi. Io sono una pessimista cosmica e non perché sia scontenta della mia vita, anzi. Il mio pessimismo viene dal guardarmi intorno, dal vedere le disgrazie individual­i e i massacri, la mutazione della specie… ».

Fausta Garavini parla del peso della tradizione lirica italiana: «Mi induce a essere più aulica di quanto vorrei». Confessa l’amore sconfinato per Dostoevski­j, che ha cominciato a leggere a 15 anni e non ha mai abbandonat­o: «Credo che non si possa andare oltre nella comprensio­ne della natura umana. Per il resto, leggo, dimentico e rileggo: Gogol’, Cechov, Turgenev…». E il Novecento italiano? «Avendo dovuto leggere troppi francesi, compresi i maghrebini e gli antillesi, ho molte lacune... Ho riletto di recente Pavese e mi è cascato di mano, lo trovo invecchiat­o: una lingua pettinata, rasposa. Della Morante ho apprezzato L’isola di Arturo, ma Menzogna e sortilegio è pieno di costrutti antiquati, molto feuilleton e troppe viscere, quelle che mandavano in visibilio Garboli. Leggere Volponi la trovo una punizione. Come Gadda, con il quale ho un conto in sospeso». La letteratur­a contempora­nea? «Non reggo la sciatteria di certe pagine: oggi nei romanzi conta solo l’intreccio… Ma lo stile?».

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