Corriere della Sera - La Lettura

Le città visibili, quasi un inventario di enigmi

Non cartoline ma fotogrammi itineranti nella raccolta di Marco Molinari

- Di DANIELE PICCINI

Ne Le città invisibili di Italo Calvino (1972) a un certo punto Kublai Kan dice a Marco Polo, che gli descrive le tante città dell’impero, viste, immaginate o ricreate nel ricordo: «Confessa cosa contrabban­di: stati d’animo, stati di grazia, elegie!». È quanto si potrebbe opporre a Marco Molinari, autore di un libro intitolato, con calviniana leggerezza, Città a cui donasti il respiro (Il Ponte del Sale).

Molinari non è poeta vicino alla sensibilit­à di Calvino. La sua stella polare è una letteratur­a tragica e ossessiva, che ha in Kafka il proprio nume (i poeti si nutrono anche di prosa, non dimentichi­amolo). Per stare al verso, il poeta più frequentem­ente evocato è Celan, oltre al maestro nostrano, Milo De Angelis, non per nulla autore della prefazione al libro. Eppure, come Le città invisibili, anche il libro poetico di Molinari è per buona parte un catalogo di città. E se quelle del poeta hanno nomi reali e profili certi, da Mantova a Roma, da Bologna a Ferrara a Venezia, tuttavia si potrebbe di nuovo osservare con Kublai Khan che «è davvero un viaggio nella memoria, il tuo!» e aggiungere, citando di nuovo il libro calviniano, che anche per questi luoghi di una vita i «desideri sono già ricordi».

Elencando città e con esse nomi di persone, doppiando di continuo, ancora come Calvino, città dei vivi e città dei morti, Molinari si muove lungo il crinale di una perlustraz­ione acuminata. Le sue mappe dispiegano planimetri­e interiori, passano per la ricomposiz­ione di istanti che all’improvviso svelano un senso autentico e definitivo. Non si tratta di cartoline ma di fotogrammi enigmatici.

In effetti i versi di questo poeta, nato in provincia di Mantova (nella Madre Pianura a cui è intitolato un suo libro precedente), fanno compiere un tragitto, un vero e proprio transito, e ci portano a un punto di inderogabi­le necessità: il luogo di una possibile rivelazion­e. Sono dunque testi scritti senza calcolo o progetto, che possono annoverare zone a più basso voltaggio e punte di massima intensità.

Non tutto è alla medesima altezza, ma è come se il poeta fosse sempre pronto a giocarsi l’intera posta a ogni verso, rischiando, azzardando. Accade così che all’improvviso dall’abisso colmo di possibilit­à della memoria si inneschi un corto circuito. Come accade in Ascoli: «Siamo entrati per mangiare là/ quell’uomo che succhiava lumache/ ci affascinò e ci rapì gli occhi/ e

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