Corriere della Sera - La Lettura
Le città visibili, quasi un inventario di enigmi
Non cartoline ma fotogrammi itineranti nella raccolta di Marco Molinari
Ne Le città invisibili di Italo Calvino (1972) a un certo punto Kublai Kan dice a Marco Polo, che gli descrive le tante città dell’impero, viste, immaginate o ricreate nel ricordo: «Confessa cosa contrabbandi: stati d’animo, stati di grazia, elegie!». È quanto si potrebbe opporre a Marco Molinari, autore di un libro intitolato, con calviniana leggerezza, Città a cui donasti il respiro (Il Ponte del Sale).
Molinari non è poeta vicino alla sensibilità di Calvino. La sua stella polare è una letteratura tragica e ossessiva, che ha in Kafka il proprio nume (i poeti si nutrono anche di prosa, non dimentichiamolo). Per stare al verso, il poeta più frequentemente evocato è Celan, oltre al maestro nostrano, Milo De Angelis, non per nulla autore della prefazione al libro. Eppure, come Le città invisibili, anche il libro poetico di Molinari è per buona parte un catalogo di città. E se quelle del poeta hanno nomi reali e profili certi, da Mantova a Roma, da Bologna a Ferrara a Venezia, tuttavia si potrebbe di nuovo osservare con Kublai Khan che «è davvero un viaggio nella memoria, il tuo!» e aggiungere, citando di nuovo il libro calviniano, che anche per questi luoghi di una vita i «desideri sono già ricordi».
Elencando città e con esse nomi di persone, doppiando di continuo, ancora come Calvino, città dei vivi e città dei morti, Molinari si muove lungo il crinale di una perlustrazione acuminata. Le sue mappe dispiegano planimetrie interiori, passano per la ricomposizione di istanti che all’improvviso svelano un senso autentico e definitivo. Non si tratta di cartoline ma di fotogrammi enigmatici.
In effetti i versi di questo poeta, nato in provincia di Mantova (nella Madre Pianura a cui è intitolato un suo libro precedente), fanno compiere un tragitto, un vero e proprio transito, e ci portano a un punto di inderogabile necessità: il luogo di una possibile rivelazione. Sono dunque testi scritti senza calcolo o progetto, che possono annoverare zone a più basso voltaggio e punte di massima intensità.
Non tutto è alla medesima altezza, ma è come se il poeta fosse sempre pronto a giocarsi l’intera posta a ogni verso, rischiando, azzardando. Accade così che all’improvviso dall’abisso colmo di possibilità della memoria si inneschi un corto circuito. Come accade in Ascoli: «Siamo entrati per mangiare là/ quell’uomo che succhiava lumache/ ci affascinò e ci rapì gli occhi/ e