Corriere della Sera - La Lettura
Disegno, dunque sono un esploratore
Nella prima metà del Novecento, spesso gli artisti hanno accompagnato la loro pratica con una costante r i f l essi one te ori ca: trattati, articoli, manifesti. Da Kandinskij a Malevic, da Boccioni a de Chirico, da Mondrian a Dalí: sulle orme di un’antica tradizione (inaugurata nel Quattrocento da Cennino Cennini), questi pittori elaborano originali scritture critiche, che innanzitutto offrono privilegiate chiavi di accesso per dischiudere lo scrigno della creazione, senza però mai svelarne l’enigma. Sono testi asistematici, rapsodici ed erratici che, nel suggerire percorsi paralleli rispetto alle opere realizzate, ci conducono dentro l’officina dell’artista. Guide capricciose ed elusive i cui autori tendono a rimanere sempre su un piano pragmatico: delineando di rado i principi di un’estetica coerente, indugiano sulle procedure seguite e sugli strumenti del «fare».
Sin dalla metà degli Anni Sessanta, questa consuetudine si è andata indebolendo. Al punto che oggi molti artisti sembrano privi di ogni tensione teorica, rassegnati ad agire nella prospettiva di una splendida superfluità, condannati a occupare un ruolo marginale nella società, impegnati soprattutto nell’approntare abili strategie di marketing, assecondando le pressioni del mercato.
Rare le eccezioni. Anselm Kiefer, cui si deve lo struggente L’art survivra à ses ruines. E William Kentridge, in Italia in questi giorni per presentare il suo monumentale lavoro sul Lungotevere, del quale sono in uscita da Johan&Levi le Sei lezioni di disegno. Nato dalle lectures tenute ad Harvard, questo libro è difficile da iscrivere in un genere. Un breviario? Un ricettario? Un’autobiografia? «Volevo che le lezioni fossero (…) la dimostrazione pratica, in aula, di quello che accade nello studio», racconta l’artista. Che, in questo piccolo trattato, si interroga con finezza sul senso dell’originaria esperienza disegnativa.
In polemica con i «duchampismi» postmodernisti, con frequenti rimandi alla storia del Sudafrica, egli descrive il suo itinerario poetico come un ostinato tentativo per far affiorare da un medium antico possibilità linguistiche inattese. Sistema analitico di conoscenza, il disegno per Kentridge permette di ascoltare il reale nelle sue mutevoli morfologie. Strumento per pro- iettare sulla carta intuizioni segrete, porta verso territori affettivi lontani. È come un’impronta sulla sabbia. Scrittura ideografica, consente di toccare terre vergini: fa vedere ciò che è nascosto. Stratagemma per cogliere, con spontaneità, tracce dell’invisibile. Le sue reti estraggono dal fondo del mare relitti abbandonati del visibile. Atto fisico e insieme visionario, rivela demoni custoditi dentro di noi. Che la mano prova a replicare con gesti rapidi, senza fermarsi mai, modulando con la matita infinite combinazioni.
Muovendo da stringenti ambiguità — «noi siamo proiettori o ricettori di ciò che abbiamo dentro (…); oppure siamo destinatari e trasmettitori del mondo esterno» — Kentridge rileva: «Il disegno si basa sempre sul principio che la carta sia una membrana. (…) La membrana diventa quasi invisibile e noi pensiamo di vedere il mondo direttamente (…) e non la sua riproduzione». Inoltre, sapiente esploratore di soglie e di interstizi, aggiunge: «Concediamoci di abitare la terra di mezzo (…) tra ciò che vediamo sul muro e la forma che inventiamo dietro la retina».
Alchimista di un processo quasi genetico, il disegnatore secondo Kentridge va oltre i modi consueti del percepire; pone in dialogo la dimensione evidente con quella più misteriosa del presente; collega impressioni provvisorie; fa sentire le articolazioni che legano gli oggetti, governandone le discontinuità; accosta elementi distanti, di cui scruta angoli inaccessibili; connette il davanti con il dietro, il sopra con il sotto, l’esterno con l’interno di ogni motivo. Grazie a uno sguardo «antigorgonico», non pietrifica le cose: le rende attraversabili.
Ma innanzitutto, scrive Kentridge recuperando suggestioni platoniche, egli calibra ombre. «Con le ombre, l’avanzare dell’immagine si fa problematico; c’è una sorgente di luce e al contempo un oggetto che blocca la luce». Questi giochi rendono le forme fragili, instabili: «La gracilità stessa dell’illusione (…) stimola una consapevolezza del nostro agire, nel quale riconosciamo la parte attiva che compiamo nel vedere, nel comprendere il mondo». Sottolineando l’importanza delle ombre, Kentridge sembra parlarci della sua predilezione per il non-finito. In sintonia con ampie regioni della storia dell’arte — da Michelangelo a Rodin — ci invita a riflettere sul fatto che, diversamente dall’opera compiuta, solo un’iconografia inesatta nervosamente composta sul foglio possa dirci l’autenticità del gesto e del carattere dell’artista.
Fare arte, per Kentridge, significa attribuire spazio all’incertezza, dare «a un materiale il beneficio del dubbio»; seguire «impulsi che sembrano (…) privi di destinazione», per «permettere (…) a ciò che inizia per capriccio di continuare». Dunque, pensare l’immagine come «una serie di tratti e di decisioni». Un rito di «cancellature imperfette» che lasciano intravedere rabbie, sofferenze, desideri.
In questo modo di procedere «il tempo si ispessisce e acquista materialità». Ecco cosa accade: barlumi di cose viste di sfuggita per pochi istanti restano «in sala d’aspetto mentre si svolge il lavoro concreto». Che è segnato da piaceri, da frustrazioni, da insicurezze e da emozioni evocate anche dai materiali scelti. Disegnare diviene così un’arte della dissonanza. «L’obiettivo è mostrare come, attraverso questa cacofonia (…) di eccesso, incertezza e indecisione, lo spettatore è invitato a (…) contemplare l’impossibilita di trovarlo, un senso». Direttore d’orchestra di questa polifonia è l’artista. Che preleva schegge di un insieme smarrito, e le rimonta. Il suo fine: «Aver bisogno dei frammenti, (…) divertirsi al progetto di cavar fuori un significato da essi».
La sfida più ardita, per Kentridge, sta nel concepire composizioni che riescano a essere immediate eppure sempre in divenire. E dgar Wind: « L a t r a s fo r mazione del - l’espressione in tecnica appartiene all’essenza stessa dell’arte».