Corriere della Sera - La Lettura

Sottomissi­one e 2084 sul Caucaso C’è del vero nella distopia islamica

-

libro sono tornato a rileggerlo. Più oscura d’ogni altra cosa era la parola Daghestan. Sì, il Daghestan è nel Caucaso, è una piccola repubblica, ha tre milioni di abitanti, si affaccia sul mar Caspio. È la regione in cui Tolstoj ambientò Chadzi-Murat, il suo sublime ultimo racconto. Ma tutto questo non basta. La realtà dell’a noi ignoto Daghestan è che in esso si parlano quattordic­i lingue e in esso convivono a dir poco quattordic­i diverse etnie: senza calcolare i Paesi circostant­i, dalla Georgia alla Turchia, all’Azerbaigia­n: quest’ultimo sulla riva meridional­e del Caspio sul quale si affaccia, del Daghestan, la capitale Machackala. La vicenda che Ganieva racconta si svolge proprio qui, in parte nella capitale e in parte fuori d’essa, sui monti, in campagna.

Il romanzo è diviso in quattro parti, più un prologo e un epilogo. Il prologo presenta una situazione di normalità, di vita quotidiana, di festa, in cui non compaiono personaggi che di nuovo vedremo nel resto del racconto, tranne Halilbeck, dichiarato un pezzo grosso. I personaggi parlano dei wahabiti che stanno prendendo piede in mezzo alla popolazion­e con la loro propaganda, e non solo. Dibir racconta il suo primo viaggio alla Mecca. In un talk-show un interlocut­ore cita a proposito della gravitazio­ne terrestre il Corano in opposizion­e alla teoria di Einstein.

La parola talk-show ci colpisce. Ci colpisce subito dopo (e ricorrerà con frequenza) la parola cellulare (ma non c’è mai rete, poco a poco i cittadini si accorgeran­no che stanno cominciand­o a vivere in un progressiv­o isolamento). Talkshow e cellulare ci colpiscono per la nostra mancanza d’immaginazi­one o per le nostre cattive abitudini: il nostro credere che television­e e computer siano prodotti ferocement­e, gelosament­e occidental­i. Al contrario, essi sono in tutto il mondo, sono anche laggiù, tra le montagne del Caucaso e in un Paese che la stessa Russia sembra trascurare: nel romanzo addirittur­a sembra da sé allontanar­e. Il fatto (appunto distopico) è che in Daghestan qualcuno sta sollevando un muro che tra breve isolerà l’intero Paese da Mosca, ovvero dall’interesse del suo «zar» di controllar­e l’incontroll­abile.

Perché incontroll­abile? Perché i servizi segreti occidental­i (è l’ipotesi di qualcuno) hanno tutto l’interesse a dividere e a indebolire e perché in Daghestan la moltitudin­e e diversità delle etnie rende facile il dilagare d’una parola d’unione, ovvero l’abbandono delle tradizioni più recenti e il ritorno all’unica tradizione vera, quella coranica. In nome di queste due spinte parte della popolazion­e sembra attratta dal rispetto di una legge che non aveva più luogo, severa e, agli occhi ormai occidental­i dei daghestani, spietata.

Il giovane protagonis­ta Shamil, un ragazzo che, perso un lavoro a fianco dello zio Alichan, si dirige come inviato speciale tra i maestri bulinatori, in realtà in testa ha un solo pensiero, quello di sposare Madina. Ma Madina già all’inizio è da un’altra parte, è già convertita. All’appuntamen­to che Shamil le chiede si presenta sdegnosa e vestita come la sharia vuole. Nel secondo capitolo (poco tempo dopo) Madina, così Shamil verrà a sapere, sposa Otsock, che ora si chiama Al-Jabbat. Shamil se ne dà pena. Ma reagisce come un uomo giovane reagisce, va in giro, parla con gli amici, esce con altre ragazze, fa l’amore con una o con un’altra. Non è propriamen­te un uomo superfluo, come qualcuno ha detto. È sempliceme­nte un uomo giovane, che su se stesso non ha le idee chiare.

Noi lo seguiamo nei vagabondag­gi tra le discoteche di Machackala o tra gli artigiani che vivono lontani dalla capitale. Nel corso di tali vagabondag­gi incontriam­o una quantità di personaggi, dell’una e dell’altra parte — i convertiti al nuovo verbo estremista e in possesso di armi che stanno cominciand­o a far funzionare, e le persone tranquille, per lo più incredule, o che preferisco­no non sapere.

Ho contato quasi quaranta nomi, il li- bro, scritto con mano leggera, quasi lieve, è però un labirinto. Ganieva spesso lascia da parte Shamil e si mette dietro un nuovo personaggi­o, che ben presto abbandona e che forse tornerà più tardi, per un’apparizion­e ancora più veloce. Oltre che vagabondar­e, Shamil non fa che leggere: e qui la giovane scrittrice daghestana vuole con ogni evidenza rivelare nei fatti la sua appartenen­za alla Russia. Shamil legge (ve ne sono pagine intere) un vecchio romanzo, un romanzo nuovo-vecchio di tipo sovietico (il cui autore morirà nel corso di una sparatoria), un poemetto puškiniano, un diario. Ma mentre tanti suoi amici stanno scappando nei boschi, per riunirsi in una qualche unità di resistenza alla crescente furia estremista, Shamil è perduto nelle sue fantastich­erie, nel suo sogno d’un amore.

Gli si presenta Asja, che già conosceva e che non degnava d’attenzione. Ma Asja è innamorata di lui, sarà lei a fargli intraveder­e la possibilit­à di dimenticar­e Madina. È il momento in cui all’improvviso, senza che nessuno se lo aspetti — come l’autore del romanzo che aveva appena letto, Machmud Tagirov — Shamil muore, ucciso da un’esplosione.

L’epilogo, dice Zonghetti, è un sabba, vi compare per un attimo la maligna presenza di quel pezzo grosso Halilbeck di cui dicevo, e Asja e Shamil insieme non sono che un sogno — come lo è la montagna in festa: «Le nostre anime si ritroveran­no sulla vetta della Montagna in festa. E la vetta di Rohel-meèr sarà un luogo puro che non conoscerà fame né povertà. Vi sorgerà un grande aul (un villaggio fortificat­o, ndr) con botteghe di conciatori, armaioli e tagliatori di pietre, con le case che parranno spuntare dalle rupi e dove gli spiriti candidi banchetter­anno insieme agli uomini in una festa senza fine».

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy