Corriere della Sera - La Lettura

Piange in silenzio un uomo negli abissi dell’inverno arabo

- Di MICHELE FARINA

Hisham Matar atterra in Libia dopo 33 anni all’estero per cercare di scoprire che fine ha fatto il padre, vittima della violenza di Gheddafi. Un viaggio che è una ferita aperta

L’aeroporto del Cairo, la voce che annuncia l’imbarco per la Libia, l’uomo che torna nel Paese che ha lasciato da bambino, il Paese che ha inghiottit­o suo padre nel pozzo della repression­e senza mai dichiararl­o morto. Isham Matar è cresciuto nella tagliola dell’incertezza, la vera arma di ogni dittatura. Intorno allo svanire di quel padre braccato dal regime, rapito dai servizi segreti egiziani al Cairo nel 1990 e consegnato a Gheddafi, quell’uomo che sua madre chiama «l’assente-presente», Matar ha costruito il suo esilio, la sua resistenza fatta di libri: Nessuno al mondo e Anatomia di una scomparsa. La terza tappa, che «la Lettura» ha potuto leggere in anteprima, uscirà il 30 giugno in Gran Bretagna (dove lo scrittore vive). Si intitola The Return (sarà tradotto per Einaudi l’anno prossimo) ed è un bellissimo ritorno.

Siamo nel marzo del 2012, pochi mesi dopo la caduta di Gheddafi. In fila al gate, aspettando l’imbarco per Bengasi, l’autore-protagonis­ta ha un ripensamen­to. Tornare «è una cattiva idea», perché potrebbe privarlo di una capacità coltivata con fatica nel corso degli anni, «la capacità di vivere lontano dai luoghi e dalle persone che amo». Gli vengono in mente Brodskij, Nabokov, Conrad, «artisti che decisero di non tornare», proprio per tentare di «guarire dal proprio Paese». Eppure «anche Shostakovi­ch, Pasternak e Nagib Mahfuz — riflette Matar — erano nel giusto: mai lasciare il proprio Paese. Parti e ogni legame con l’origine sarà reciso».

Dalla «cavità» dell’esilio, 33 anni dopo il racconto del viaggio Tripoli-Il Cairo con cui terminava Nessuno al mondo, il bambino di 8 anni diventato uomo prova a cimentarsi nel salto mortale del ritorno, sempre con «l’ossessione» che gli rimprovera la madre, «l’ossessione di fare luce» sulla scomparsa del padre Jaballa, uno dei principali oppositori al regime di Gheddafi, ultimo indirizzo conosciuto (anno 1996) la spaventosa prigione di Abu Salim a Tripoli. Inferno di torture ed eccidi che Jaballa, in una delle tre lettere clandestin­e che riuscì a far arrivare alla famiglia, descrive come un «nobile palazzo» e addirittur­a una «grande biblioteca», per la capacità dei detenuti di far circolare i libri tra i fori dei muri.

Che sia una storia di ferite lo si capisce già dal finestrino dell’aereo: «Ed eccola, la terra. Ruggine e giallo. Il colore della pelle appena cicatrizza­ta». Accanto a sé lo scrittore ha la madre e la moglie Diana. Le storie di Matar, ha scritto Roddy Doyle, ci sembrano «inevitabil­i e tuttavia piene di sorprese». Vale anche per The Return: a metà libro troviamo Hisham e Diana seduti al Caffè Vittoria di Bengasi, «nel punto in cui sbarcò Mussolini». Scelto proprio perché non offriva alla vista edifici che facessero pensare a un Paese arabo e musulmano. Lì, davanti al mare di Bengasi, nel marzo 2012, prima che le speranze della rivoluzion­e appena conclusa diventasse­ro delusioni «per il sangue e le stragi» della nuova guerra civile, l’esule Hisham intravvede davvero, almeno per un momento, la fine dell’esilio. Le incertezze della par- tenza lasciano il posto alla tentazione di restare. «Rimuginavo sulla possibilit­à di farne la mia casa. Dentro di me cominciavo a pensare di spedire qui i nostri libri, i quadri e la musica. Imballare tutto in un container e farlo arrivare in questa città sulla riva del mare, una città fatta perché ci arrivino cose». Da Londra a Bengasi.

Ma presto l’intera Libia diventa «inaccessib­ile» ai suoi stessi abitanti. La finestra sognata di quella casa possibile sul mare si richiude. O rimane socchiusa. Come la possibilit­à di ottenere una parola, una prova sul destino del padre. Spostandos­i nel tempo con maestria, Matar ci racconta alcune tappe pregresse della sua ricerca. «È una vergogna non sapere dove sia tuo padre, una vergogna non essere capace di smettere di cercarlo, una vergogna anche voler smettere di cercarlo». Negli anni in cui la comunità internazio­nale (Londra in testa) sembra venire a patti con Tripoli, la campagna promossa da Matar per ottenere verità sul padre induce Saif Gheddafi, il figlio più presentabi­le del dittatore, a prestargli orecchio. La descrizion­e del loro incontro, in un albergo chic di Londra, vale come un saggio sulle dittature. Saif: «È lei lo scrittore?». «Sì, sono io». «E non fa altro?». «Temo di no». «Come sarebbe, intende dire che la sola cosa che fa è scrivere?». «Esatto». «Non fa nient’altro?». «Cerco di evitarlo». Saif, in pratica, vuole sapere «cosa volete». Quanto vogliono i Matar per smettere di dare fastidio. Promette aiuto, ma fa capire che Jaballa è morto. Invita il figlio a tornare in Libia. Si scambiano sms. Invano. Fino al 2010, pochi mesi prima della rivoluzion­e, la fine di Gheddafi, l’arresto di Saif. Si aprono le celle di Abu Salim. «Per 25 anni ho seguito ogni brandello d’informazio­ne che riuscivo a scovare sulla vita nella prigione». Ma una volta tornato in Libia, Matar non vorrà camminare tra quelle mura. Nel cortile dove, «con ogni probabilit­à», suo padre fu ucciso, il suo nome sepolto con i corpi dei 1.270 detenuti trucidati nella strage punitiva del 29 giugno 1996. Non esistono documenti. E forse ogni ritorno è impossibil­e, se non inutile. Ma finendo di leggere l’ultimo viaggio di Matar, ci si trova pieni di voci che restano, una casa sonora da cui tutto il mondo sembra accessibil­e. Perfino da una cella di Abu Salim. Lo zio Mahmoud, che ha trascorso là dentro 21 anni, nella penombra della sua stanza ricorda a Hisham come la voce di suo padre attraversa­sse le celle e i corridoi dove di giorno le casse acustiche mandavano i discorsi di Gheddafi. Jaballa Matar recitava le sue amate poesie a memoria, «in quelle notti di tenebra e silenzio in cui, come dice lo zio, si poteva sentir cadere uno spillo, o un uomo adulto piangere sommessame­nte».

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