Corriere della Sera - La Lettura
Ripensiamo la guerra fredda Oltre il mito del trionfo liberale
Soprattutto negli Stati Uniti la discussione sul lascito della guerra fredda sembra essersi ravvivata nel tentativo di comprendere la natura dell’attuale crisi internazionale, segnata da un terrorismo difficile da definire, individuare e combattere. Domenica scorsa, sul «Corriere della Sera», Michael Walzer metteva in guardia dalla paura e dalle reazioni pericolose che può innestare. E proprio lui è stato tra coloro che maggiormente hanno contribuito al dibattito sul dopo guerra fredda nei 25 anni trascorsi dalla sua fine. In questo periodo, infatti, è sembrato aumentare il peso di argomenti morali nelle strategie di politica internazionale, se non altro come giustificazione all’azione o al non intervento, spesso usando come categoria interpretativa una narrazione della guerra fredda semplicistica e al tempo stessa trionfalistica.
Su questo tema era apparso qualche anno fa uno straordinario libro a più voci (purtroppo non tradotto in italiano) curato da Ellen Schrecker, una delle massime studiose della guerra fredda, che si chiamava appunto Cold War Triumphalism (The New Press), e recitava nel sottotitolo «il cattivo uso della storia dopo la caduta del comunismo». Quella narrazione unilaterale e puramente elogiativa della guerra fredda aveva come base la convinzione — profonda e ancora molto diffusa — che il comunismo fosse crollato soprattutto per l’azione positiva degli Stati Uniti, non per sue contraddizioni interne insanabili, e aveva condotto a credere che il capitalismo dell’era di Reagan e Bush senior (quello per cui il libero mercato equivaleva alla democrazia e l’elogio della ricchezza rappresentava la base della libertà) costituisse il modello occidentale che si era ormai imposto al mondo come unico e migliore di ogni altro in passato. Schrecker, in un’introduzione di grande spessore, ricordava come in questa nar- razione non vi sia accenno non solo alla guerra di Corea, del tutto dimenticata, o al Vietnam, diventato un episodio marginale, ma nemmeno ai tantissimi errori commessi ripetutamente dagli Stati Uniti in India, Pakistan, Afghanistan, Arabia Saudita, Egitto, quegli errori che lastricano in gran parte le difficoltà e i drammi del presente.
Effettivamente l’intera sinistra — che trovò poi in Blair e Clinton i suoi unici punti di riferimento possibili — smise di pensare a che tipo di socialismo cercare di realizzare per puntare a capire che tipo di capitalismo occorresse appoggiare. Anche perché il potere di attrazione della narrazione trionfalista aveva basi reali e profonde, come avrebbe dimostrato la vicenda cinese.
Una riflessione approfondita su questi temi permette tuttavia di scorgere, dietro la volontà trionfalistica di esaltazione del modello americano — Ann Coulter, una delle paladine più veementi del neoconservatorismo, sostenne che «non fu solo la potenza militare o la preferenza per l’abbondanza del capitalismo a guidare la vittoria di Reagan sul comunismo: fu la scelta americana di credere in Dio piuttosto che nell’uomo» — una realtà più complessa, il cui comune denominatore fu la volontà di estendere e consolidare un ordine capitalista guidato dagli Stati Uniti. Proprio per questo, ricordava nel suo saggio Chalmers Johnson, in questa narrazione — incentrata esclusivamente sull’Europa — si dimentica volutamente quanto fatto dagli Usa in Asia o in America Latina, che non permette un’autoesaltazione altrettanto totale e lineare.
Il contributo di maggiore attualità resta però quello di Nelson Lichtenstein sul «trionfalismo del mercato», probabilmente la singola eredità più duratura e importante di questa narrazione della guerra fredda, attorno a cui si è maturata l’obsolescenza definitiva non solo di ogni ipotesi di tipo socialista, ma perfino di qualsiasi ipotesi di «regolazione» che era appartenuta in passato alla socialdemocrazia, ai fautori del New Deal o perfino a regimi autocratici e dittatoriali. Il declino delle idee incentrate sul ruolo dello Stato come ridistributore della ricchezza, sulla possibilità di una programmazione economica nel contesto di un sistema democratico, va analizzato, per Lichtenstein, nel quadro di una incomprensione degli scenari futuri che accomunò, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, tanto i conservatori quanto i progressisti, non esclusa la nuova sinistra che, invece di discutere sui vantaggi e i pericoli del capitalismo di mercato, sui suoi vizi e virtù reali, ne riteneva storicamente esaurita la spinta espansiva, ipotizzando una fase di transizione ben diversa da quella che si ebbe poi a manifestare negli anni Novanta.
Una critica profonda e circostanziata del semplicismo dei «vincitori» della guerra fredda porta con sé anche una critica puntuale e approfondita dell’operato della sinistra, riformista o anticapitalista che fosse, imbrigliata nella costruzione di una democrazia consensuale o di una democrazia partecipativa, mentre il mondo postfordista assumeva pian piano le forme inattese del dopo guerra fredda. In questo ripensamento del passato con lo sguardo ai problemi del presente, particolarmente acuta è l’osservazione di Ellen Schrecker per cui la guerra fredda del bipolarismo, lungi dall’essere quel periodo di pace e di progresso che fu forse soltanto per l’Europa, rappresentò anche un indebolimento permanente del sistema mondiale basato sulle Nazioni Unite e sugli organismi internazionali, una debolezza che si è ulteriormente aggravata dopo la guerra fredda, ma che ad essa va fatta risalire.