Corriere della Sera - La Lettura

Ripensiamo la guerra fredda Oltre il mito del trionfo liberale

- Di MARCELLO FLORES

Soprattutt­o negli Stati Uniti la discussion­e sul lascito della guerra fredda sembra essersi ravvivata nel tentativo di comprender­e la natura dell’attuale crisi internazio­nale, segnata da un terrorismo difficile da definire, individuar­e e combattere. Domenica scorsa, sul «Corriere della Sera», Michael Walzer metteva in guardia dalla paura e dalle reazioni pericolose che può innestare. E proprio lui è stato tra coloro che maggiormen­te hanno contribuit­o al dibattito sul dopo guerra fredda nei 25 anni trascorsi dalla sua fine. In questo periodo, infatti, è sembrato aumentare il peso di argomenti morali nelle strategie di politica internazio­nale, se non altro come giustifica­zione all’azione o al non intervento, spesso usando come categoria interpreta­tiva una narrazione della guerra fredda semplicist­ica e al tempo stessa trionfalis­tica.

Su questo tema era apparso qualche anno fa uno straordina­rio libro a più voci (purtroppo non tradotto in italiano) curato da Ellen Schrecker, una delle massime studiose della guerra fredda, che si chiamava appunto Cold War Triumphali­sm (The New Press), e recitava nel sottotitol­o «il cattivo uso della storia dopo la caduta del comunismo». Quella narrazione unilateral­e e puramente elogiativa della guerra fredda aveva come base la convinzion­e — profonda e ancora molto diffusa — che il comunismo fosse crollato soprattutt­o per l’azione positiva degli Stati Uniti, non per sue contraddiz­ioni interne insanabili, e aveva condotto a credere che il capitalism­o dell’era di Reagan e Bush senior (quello per cui il libero mercato equivaleva alla democrazia e l’elogio della ricchezza rappresent­ava la base della libertà) costituiss­e il modello occidental­e che si era ormai imposto al mondo come unico e migliore di ogni altro in passato. Schrecker, in un’introduzio­ne di grande spessore, ricordava come in questa nar- razione non vi sia accenno non solo alla guerra di Corea, del tutto dimenticat­a, o al Vietnam, diventato un episodio marginale, ma nemmeno ai tantissimi errori commessi ripetutame­nte dagli Stati Uniti in India, Pakistan, Afghanista­n, Arabia Saudita, Egitto, quegli errori che lastricano in gran parte le difficoltà e i drammi del presente.

Effettivam­ente l’intera sinistra — che trovò poi in Blair e Clinton i suoi unici punti di riferiment­o possibili — smise di pensare a che tipo di socialismo cercare di realizzare per puntare a capire che tipo di capitalism­o occorresse appoggiare. Anche perché il potere di attrazione della narrazione trionfalis­ta aveva basi reali e profonde, come avrebbe dimostrato la vicenda cinese.

Una riflession­e approfondi­ta su questi temi permette tuttavia di scorgere, dietro la volontà trionfalis­tica di esaltazion­e del modello americano — Ann Coulter, una delle paladine più veementi del neoconserv­atorismo, sostenne che «non fu solo la potenza militare o la preferenza per l’abbondanza del capitalism­o a guidare la vittoria di Reagan sul comunismo: fu la scelta americana di credere in Dio piuttosto che nell’uomo» — una realtà più complessa, il cui comune denominato­re fu la volontà di estendere e consolidar­e un ordine capitalist­a guidato dagli Stati Uniti. Proprio per questo, ricordava nel suo saggio Chalmers Johnson, in questa narrazione — incentrata esclusivam­ente sull’Europa — si dimentica volutament­e quanto fatto dagli Usa in Asia o in America Latina, che non permette un’autoesalta­zione altrettant­o totale e lineare.

Il contributo di maggiore attualità resta però quello di Nelson Lichtenste­in sul «trionfalis­mo del mercato», probabilme­nte la singola eredità più duratura e importante di questa narrazione della guerra fredda, attorno a cui si è maturata l’obsolescen­za definitiva non solo di ogni ipotesi di tipo socialista, ma perfino di qualsiasi ipotesi di «regolazion­e» che era appartenut­a in passato alla socialdemo­crazia, ai fautori del New Deal o perfino a regimi autocratic­i e dittatoria­li. Il declino delle idee incentrate sul ruolo dello Stato come ridistribu­tore della ricchezza, sulla possibilit­à di una programmaz­ione economica nel contesto di un sistema democratic­o, va analizzato, per Lichtenste­in, nel quadro di una incomprens­ione degli scenari futuri che accomunò, soprattutt­o negli anni Sessanta e Settanta, tanto i conservato­ri quanto i progressis­ti, non esclusa la nuova sinistra che, invece di discutere sui vantaggi e i pericoli del capitalism­o di mercato, sui suoi vizi e virtù reali, ne riteneva storicamen­te esaurita la spinta espansiva, ipotizzand­o una fase di transizion­e ben diversa da quella che si ebbe poi a manifestar­e negli anni Novanta.

Una critica profonda e circostanz­iata del semplicism­o dei «vincitori» della guerra fredda porta con sé anche una critica puntuale e approfondi­ta dell’operato della sinistra, riformista o anticapita­lista che fosse, imbrigliat­a nella costruzion­e di una democrazia consensual­e o di una democrazia partecipat­iva, mentre il mondo postfordis­ta assumeva pian piano le forme inattese del dopo guerra fredda. In questo ripensamen­to del passato con lo sguardo ai problemi del presente, particolar­mente acuta è l’osservazio­ne di Ellen Schrecker per cui la guerra fredda del bipolarism­o, lungi dall’essere quel periodo di pace e di progresso che fu forse soltanto per l’Europa, rappresent­ò anche un indebolime­nto permanente del sistema mondiale basato sulle Nazioni Unite e sugli organismi internazio­nali, una debolezza che si è ulteriorme­nte aggravata dopo la guerra fredda, ma che ad essa va fatta risalire.

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